lunedì 22 novembre 2010

Alius carmen - Job 13.11-16

Non vi spaventa la sua maestà,
non vi assale il suo terrore?
Sofismi di cenere sono i vostri moniti,
strumenti d'argilla sono le vostre repliche.
Tacete, lasciatemi solo, voglio parlare io,
mi accada quel che accada.
Afferrerò la mia carne coi denti
terrò tra le mani la mia vita.
Mi ammazzi pure, non l'aspetterò in silenzio,
ma difenderò in faccia a lui la mia condotta
e questa sarebbe già la mia salvezza
perchè un ipocrita non può comparire davanti a lui.

domenica 7 novembre 2010

Meditatio de Autumno IV - Topoi


Alcuni argomenti di discussione sono veramente pruriginosi. Insomma, non pretendo di parlare di stemmata codicum o di scritture onciali o di poeti polacchi morti suicidi a vent’anni o di film muti o di camice o di gruppi sperimentali di provincia o di fumetti o di evoluzionismo o di metafisiche improvvisate o di epistemologia. Ma, quantomeno, qualora non si avesse l’adeguato bagaglio enciclopedico per portare avanti discussioni del genere – e non è affatto obbligatorio, per carità! – si parli di calcio o di figa o di film trash, per favore.
La mia idiosincrasia nei confronti dei filosofi, per esempio, mi porta spesso a rifuggire questioni sull’argomento, almeno in certi termini. No, quelli lì non la troveranno la verità e sebbene cerchino in ogni modo di pararsi il culo con sub-teorie che facciano da scudo a possibili repliche o con tesi-non tesi che lasciano l’ambiguo in bocca, il loro cristallino, monumentale ma fatiscente edificio razionalistico è sempre, almeno da un piccolo spiraglio, attaccabile. E non c’è niente di peggio di chi si improvvisa filosofo! Quantomeno i filosofi famosi lo facevano con stile.
La morale poi. Oh, la morale spicciola, che gustoso tema di discussione, quasi divertente. Belli soprattutto concetti quali “coerenza” e “ipocrisia”, che si contendono il secondo posto subito dietro l’ormai mitico “mettersi in discussione” e appena avanti a “dovere civico”. Tanto valeva tenersi le tavole della legge, almeno all’orecchio suonano bene.
Ma su tutto, l’intramontabile topos dell’“eh, ma sai com’è, al giorno d’oggi…” Vi spiego come funziona. Prendete la frase appena citata fra virgolette e aggiungete subito dopo un aspetto qualsiasi della vita, della cultura, della politica, della società, denigrandolo e rimembrando di rimando (mi stringerei la mano per l’abilità retorica) i fasti nostalgici e un po’ fascisti del passato. Non ci sono più i gruppi noise di una volta. I giovani di oggi non leggono. Eh, ma Berlinguer sì che era un vero politico. Certo che oggi che se non la dai in giro… Un tempo valevano le competenze. I fanciulli di oggi si drogano e poi vanno in discoteca e poi muoiono in macchina. Qualche esempio da repertorio, nulla più. È inutile sottolineare che si tratta di topos vero e proprio e non di clichè: dalla notte dei tempi si parla di “età dell’oro”, di “fasti dell’antica Roma”, di “primavera dell’umanità”, di “aurea classicità” e così di scorrendo. Eh, è proprio vero, una volta sapevano dare nomi più belli a questa cosa, altro che oggi…!
E ciò che vale sul piano diacronico, vale anche su quello diatopico. Paragonare l’Italia a qualsiasi altro angolo del mondo sottolineando come la prima faccia schifo, penso stia diventando uno sport riconosciuto e regolamentato.
Insomma, se volete parlare di cazzate, fate come me, apritevi un blog, così nessuno sarà obbligato ad ascoltarvi e lo farà solo se lo vorrà. Oppure parlate di tette, culi, coppa Italia e Lino Banfi. Che, ripeto, almeno sono argomenti ancora vasti, sterminati e riguardo cui ognuno può dire la sua.

Si, se vi state chiedendo perchè ci sia la Grammatica come immagine del post... Boh, è un po' che volevo utilizzarla, ma i neuroni per i discorsi intelligenti li ho lasciati tutti per gli esami che devo dare, quindi la uso per una stronzata. Che possa perdonarmi.

martedì 19 ottobre 2010

Meditatio de Autumno III

Il tempo va avanti, sembrerebbe. E siamo alla mia quarta settimana a Milano. Alcune zone sono davvero interessanti, altre meno. C’è gente di ogni tipo, chissà se due o tre anni fa sarei stato in grado di conoscere così tante persone in così poco tempo. Certo, la sacrosanta spocchia mi accompagna sempre, come una fedele compagna. Ma, d’altronde, se dovessi iniziare a selezionare le conoscenze secondo i miei criteri, vivrei una ben solitaria esistenza. C’è sempre l’innegabile vantaggio di confrontarmi con un campione più significativo di mondo. Mi sto accorgendo di essere davvero una bella persona, interessante, intelligente, aperta, piacevole. Bravo.
Ah, mi sono iscritto in palestra.
Fa ridere, si. Parecchio. Ma devo dire che andarci di mattina ha i suoi lati positivi. Sono circondato da vecchini, adorabili. Oddio, mi smerdano addirittura loro, in quanto a prestanza fisica. Poco male.
Le lezioni di filologia mediolatina hanno dell’erotico, ve lo assicuro. Oggi mi sono eccitato fisicamente davanti a quello stemma codiucum del Policraticus di Giovanni di Salisbury. Cazzo, cazzo, cazzo, che bello.
E il tempo, in tutto ciò, va avanti. Non capisco se corra troppo (quasi un mese!) o indugi oltremisura (solo un mese?). Ci sono situazioni che non riesco a valutare, senza capirne la portata cronologica. Senza contare tutti quei casini bergsoniani su tempo e durata. Cazzo.
A proposito, che fatica accettare certe convenzioni idiomatiche del milanese. Tipo “figa” al posto di “cazzo”, o l’articolo prima del nome, o certe inopportune abbreviazioni del tipo “buon appe” o “vai tranqui” o “siga” o cose così. Nessun problema con le vocali invece, è il meno. Mi consolano i coinquilini meridionali al 100%. Fa ridere, ma non ho mai parlato così tanto napoletano quanto qui a Milano.
Mah.

martedì 5 ottobre 2010

Meditatio de Autumno II - "Comunicatio"


Appurato che i social network non sono il posto ideale per giochi para-letterari o manifestazioni di acume, considerato che la brevità di un essemmesse impone una struttura testuale troppo breve e comunque troppo rigidamente definita, esclusa la possibilità di relazionarsi per via telefonica (sembra tramontata l’epoca delle lunghe telefonate), ridotte al minimo le possibilità di interagire di persona per via della troppa facilità a spostarsi e spostarsi lontano e spostarsi di continuo, che scenari si prospettano per la mia/nostra socialità?
I problemi nascono a monte, e sono dannatamente grossi. Parlare con qualcuno porta a incomprensioni, sempre. Cosa voglio dire io quando parlo con qualcuno o gli mando un messaggio o gli scrivo una mail? Una dichiarazione d’intenti prima di ogni atto comunicativo sarebbe pesante, noiosa, ridicola. Auspico la creazione di una scheda contenente i sottocodici linguistici da utilizzarsi, i referenti, le finalità, i limiti, da compilare prima di ogni nuova conoscenza e da far firmare ad ambo le parti.
Per non parlare di chi ascolta/legge discorsi di altri o per altri o fra altri. È un problema sorto da poco, forse dalla nascita dei social network o giù di lì. Le parole fanno male e per questo di solito non ne uso mai troppe, ma qualche volta per zelo creativo non ci penso su e mi lascio andare; senza considerare che dall’altra parte ci sono centinaia di persone a cui non interessa un accidenti la mia estemporanea elucubrazione, o che facilmente la fraintenderanno, o che la penseranno indirizzata a loro, o che la capiranno e ci soffriranno.
Le parole fanno male e i social network fanno male. Il blog è uno strumento più autarchico e personale, lo leggi se vuoi leggerlo, ti dà spazio per spiegare; ecco perché da oggi sarà meglio usarlo di più.
E magari sponsorizzarlo su Facebook.

sabato 25 settembre 2010

Meditatio de Autumno I - "Dissipatio"


E pian piano riacquisto una capacità retorica soddisfacente. Me ne stupisco, erano tre anni, più o meno, che non scrivevo. E in qualche mese ce l’ho fatta, a recuperare. Chissà, sarà tipo l’andare in bici, lo impari e poi rimane, al massimo ci si esercita un po’, e in poco tempo si è come prima. O meglio di prima, quando io prendo la bici, adesso, mi sento più abile; perché nel frattempo ho imparato a guidare, ad avere buonsenso, a calcolare i tempi, a resistere un po’ di più alla fatica. Abilità complementari. È un po’ come quando gioco a Super Mario. Da piccolo in ore e giorni e mesi, nonostante gli immani sforzi e gli allenamenti serrati, non andavo poi così avanti. Qualche mese fa in un pomeriggio l’ho finito, nonostante non toccassi il Super Nintendo da una decina d’anni. I movimenti erano impliciti, introiettati, il verde tenuto premuto per correre, da rilasciare solo quando si vuole frenare o sparare; il giallo a portata di falange per saltare. Ma tutto il resto era molto più facile. Grazie, abilità complementari. Magari un giorno anche gli stupidi “esami complementari” mi serviranno, quelli tipo Teatro d’animazione o Indologia o Tanatologia storica (tutti belli eh, qui si parla di utilità però). Qualcuno mi biasima perché non mi concentro in una direzione precisa, perché cambio spesso argomento. È per questo che ho iniziato una ventina di romanzi, tutti abortiti dopo due o tre cartelle. Ma la dispersione è approfondimento del molteplice. Forse solo così, nel multiforme, si coglie il reale.
O forse mi sto solo perdendo di nuovo, cambiando argomento.

martedì 21 settembre 2010

Meditatio limitis aestatis + furtivum iudicium: "Cuore amore errore disintegrazione" - Uochi Toki

E mi appresto a trasferirmi a Milano. Bisognerà superare il pregiudizio di fondo che un po’ tutti noi abbiamo nei riguardi di questa città. L’università è bella. Ma proprio bella bella, soprattutto se confrontata a quell’aborto pseudo-moderno di Palazzo Nuovo a Torino. Anche l’ambiente accademico non sembra male.
Mi mancheranno le serate torinesi, ecco. Ci ho messo tre o quattro anni ad ambientarmi, e ora mi devo dimenticare tutto e ricominciare. Dire bye bye ai Murazzi e buttare l’occhio verso i Navigli. Chissà se a Milano le ragazze lo sanno già, che la poesia è tornata di moda. Ho paura di no. Chissà se hanno più rispetto verso Darwin e la sua santa legge evolutiva. Chissà se ci sarà una nicchia biologica pronta ad accogliermi. Sono già stato fortunato a trovare una bella casa, in piazza Loreto. Ogni volta che ci passerò davanti rimembrerò quella bella violenza rivoluzionaria e partigiana, che non è male. C’è la metro sotto casa. I coinquilini mi piacciono. Poi ci saranno situazioni “strane” a Milano. Persone che vorrei vedere e non vedere allo stesso tempo. Il che mi lascia aperte parecchie strade. Il caffè a Milano non mi sembra un granché, e voi pochi lettori sapete quanto questo sia importante per me. Urge una spedizione per tutti i bar della città. Il duomo è bello, mi aveva detto il mio professore di Storia Medievale che dentro c’è un lampadario che viene direttamente da Cluny. Urge approfondimento. C’è una mostra di Dalì fino a gennaio. Ci sono tanti concerti. Urge un aggiornamento.
Sarò il vostro ambasciatore laggiù, oh amici torinesi. Vi dirò come sono le ragazze di Milano, cosa si beve lì, se anche lì si dice “preso bene” e “preso male” (le uniche due espressioni idiomatiche che sono entrate nel mio parlare senza particolari conflitti di coscienza linguistica), se la sera mettono musica reggae da qualche parte. Avrò di sicuro una bella colonna sonora, l’ultimo album degli Uochi Toki (un plauso per l‘abilità retorica nel cambio di soggetto).



Cuore Amore Errore Disintegrazione”, uscito da pochi giorni, è un discorso sull’amore. O meglio, sulle relazioni interpersonali. O meglio ancora, sul rapporto fra il protagonista e le donne. Fin qui, nulla di strano; ma il tutto ha una compattezza concettuale e retorica tale da superare anche l’idea di concept album: già con “Libro Audio” gli Uochi Toki avevano provato a dare una direzione precisa al discorso; qui però tutto è coeso, è quasi un unico, lungo e diversificato brano (non a caso i titoli dei pezzi, uniti, formano una frase unica), grazie alla comunanza dei temi, all’andamento narrativo e alla reiterazione di immagini, concetti, situazioni.
Ok, non è il consueto Iudicium. Volevo solo rendervi partecipi di quanto fosse figo questo album. Approfondirò e scriverò, magari.

giovedì 2 settembre 2010

Meditatio aestatis - V (speciale Darwin)


In Darwin magari non ci crediamo proprio tutti, però ci speriamo. Cioè, perlomeno io ci spero. Io che mi ritengo superiore al resto del mondo. Le mie doti fisiche, magari, non sono proprio da maschio alpha, ma bene o male dovrei essere sopra la media: sono un po’ più alto, sono un po’ meno grasso; nonostante la vista non proprio sviluppata, udito e gusto sono ottimi; non sono uno sportivo ma mi muovo più della maggior parte delle persone; i lineamenti del viso non sono in fondo così disprezzabili. Di doti intellettuali poi, non ne parliamo: sono simpatico, divertente, ho ottimi risultati scolastici, ho tantissimi hobby, scrivo e leggo molto, sono un appassionato di cinema, fumetti, arte, letteratura, scienza, storia, sono sensibile, ho un bel carattere, capisco le donne, sono estroverso, sono romantico ma mai sdolcinato, non sono geloso ma nemmeno troppo indulgente, so cucinare, sono un buon amante… Ecco, magari pecco di modestia, questo si. Ma siamo poi sicuri che sia davvero un peccato riconoscere la propria innegabile superiorità rispetto al resto del mondo? Io credo di no. E pensare che c’è gente che si sente anche in colpa quando, per qualche motivo, è migliore degli altri. O almeno finge di sentirsi in colpa. Fatto sta che se i meccanismi di selezione della specie così come Darwin li illustra fossero funzionanti, si aprirebbero due scenari:
  1. In breve tempo il genere femminile si accorgerà della mia ovvia egemonia e mi pregherà in ginocchio di donare il mio liquido seminale; se finora non è successo è solo perché o ero impegnato o distratto o perché la mia grandezza era ancora in nuce o semplicemente perché ancora non sapevo di essere il migliore;
  2. Sono assolutamente inattuale. Voglio dire, le mie buone doti di cui sopra, potrebbero non essere più indispensabili. E anzi, addirittura dannose. Perché? Perché non sono più compatibili con la società di oggi. D’altronde è lo stesso Darwin a metterci in guardia su questo: “non è la specie più forte che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti”.
Insomma, come avrete capito – e converrete con me su questo – vedo più probabile la seconda opzione. E continuerò a starmene qui a guardare le ragazze migliori correre dietro alla feccia dell’umana stirpe, continuerò a borbottare, a bermi la mia birra ghiacciata e a leggermi Darwin.

sabato 28 agosto 2010

Iudicium - "Watchmen"

Per noi europei non è facile capire la profondità dei supereroi americani. Sono un prodotto che apprezziamo e consumiamo, ma come puro oggetto di intrattenimento. Per gli americani invece sono qualcosa di più: sono la loro mitologia. Si, noi abbiamo l’Iliade, l’Odissea, secoli e secoli di letteratura, un patrimonio di immagini, situazioni, archetipi che arricchiscono il nostro ipertrofico immaginario collettivo; loro no, sono lì da due o tre secoli appena, la loro storia più antica riguarda la conquista dell’ovest, i padri pellegrini, David Crockett e poco altro. Dove far giacere i tanto adorati “valori tradizionali”? Da quale patrimonio attingere immagini, metafore, esempi? Dalla tradizione europea, certo; ma l’alterità americana, di cui tanto loro si vantano e su cui, volente o nolente, si costruiscono la loro immagine, ha avuto bisogno, a partire almeno dagli anni della grande depressione, di nuovi dei e nuovi eroi, nuovi modelli di riferimento e nuove basi su cui modellare il sogno americano. E cosa più dei supereroi incarna il mito del selfmade-man, della giustizia fai-da-te figlia della corsa al west, della dirompente voglia di emergere come singola personalità all’interno della società?
Non a caso, dopo appena sessant’anni, Superman, Batman, Spiderman, Flash (e chi più ne ha più ne metta) sono a buon diritto entrati nell’immaginario collettivo anche per noi europei (che viviamo ormai di riflesso alle mode statunitensi – ironica la sorte, eh?); per gli americani sono invece le basi della cultura popolare, del linguaggio, della morale, sono una vera e propria mitologia, appunto.
E come per tutti i linguaggi ad alto grado di formalizzazione, anche quello supereroistico è “affetto” da un retorica spesso fastidiosa. Che sia la retorica dell’eroe senza macchia, alla Superman, o quella del vigilante oscuro e mascherato, in stile Batman, poco importa; il carattere mitologico comporta una stilizzazione dei caratteri e dei topoi e tende a presentare un manicheismo marcato (per noi europei addirittura stucchevole).
Non è un caso che sia proprio un inglese, Alan Moore, a rimescolare le carte in tavola: l’autore di Watchmen, quello che da molti è ritenuto il capolavoro dei comics “all’americana”, in nessuna delle sue opere si mostra indulgente verso gli standard del genere supereroistico. Anzi, proprio in Watchmen (uscito fra il 1985 e 1986, in 12 numeri) Moore opera un ribaltamento dei tradizionali caratteri degli eroi in calzamaglia: i supereroi – che non vengono mai chiamati con questo nome, ed è già un segnale – non hanno poteri né ambizioni né competenze paragonabili a quelle di un Superman o di un Batman o di uno Spiderman; sono uomini e donne comuni che, per un motivo o per l’altro, hanno indossato un costume e si sono dati alla giustizia personale. Non ci sono, in Watchmen, il bene e il male, ci sono solo opinioni diverse, e l’autore ben si guarda dal dare giudizi a proposito (se proprio ci si vuole fare un’idea della posizione di Moore, meglio volgersi a "V per vendetta", altro suo capolavoro). Il tutto si configura come una riflessione sul potere e sull’autorità: fino a che punto ha senso il concetto di autorità costituita? Dove finisce la responsabilità dello stato e dove inizia quella del vigilante? L’eroismo è un motivo sufficiente per darsi il potere di imporre la propria giustizia, o è solo l’anticamera del fascismo? E nel caso, sarebbe poi così sbagliato?
Questi temi, trattati con una profondità mai vista nel mondo dei comics (se non in Miller, "Il ritorno del cavaliere oscuro", non a caso degli stessi anni), non sempre possono essere compresi da noi europei, perché le categorie politiche americane sono parecchio diverse dalle nostre; Moore ne è cosciente, e gioca spesso con l’ambiguità statunitense nel parlare di fascismo, comunismo e democrazia.
Oltre a essere un’analisi politica, Watchmen è la rappresentazione di tante piccole personalità, ognuna profondamente umana (con l’eccezione, di cui parleremo dopo, del Dottor Manhattan), con i propri sogni, il proprio passato, la propria morale e le proprie speranze; è un discorso sulle pazzie della folla e della società di massa, sempre sull’orlo di trasformarsi in branco; è una meditazione sui limiti della scienza e sulle sue grandi potenzialità; è una riflessione sulla divinità, sul trascendente, incarnati nel personaggio del Dottor Manhattan, l’unico fornito di superpoteri, che vive nel mondo ma al di là di esso, che conosce la realtà al di là del tempo e delle illusioni sensibili; insomma, i piani del discorso sono numerosi e tutti affrontati con profondità e originalità. Si potrebbe quasi dire che Moore si serva di un universo supereroistico solo per avere un quadro di riferimento ben preciso, un’ambientazione che gli permetta, in termini mitologico-simbolici, di affrontare un vasto spettro di problemi diversi, attingendo alla più popolare delle mitologie contemporanee, quella appunto dei comics americani.
Da un punto di vista letterario, Watchmen eccelle per la magistrale gestione della materia narrativa e dei tempi del racconto, sempre dosati alla perfezione e mai pesanti o frenetici; l’azione è quasi inesistente, e dove c’è è funzionale al discorso generale; il racconto si dipana su più livelli temporali, retti da un buon sistema di flashback e digressioni; i dialoghi cercano di evitare la retorica, sebbene qualche piccola concessione “epica” sia presente.
Gibbons, alle matite, sfoggia un tratto piacevole ma tutto sommato non originale; il design dei personaggi è curato e suggestivo, ma non si tratta di un innovatore come Miller, per esempio. La grandezza di Gibbons sta nel taglio fortemente registico e nei dettagli: numerosi sono i riferimenti iconici e simbolici sparsi nell’opera, come le rappresentazioni di orologi, piramidi, smile; mai gratuiti, sempre ancorati alla storia, ma allo stesso tempo investiti di una specificità appunto simbolica, quindi in una certa misura trascendente.
Insomma, se amate i fumetti americani, non potete non leggere Watchmen. Se li detestate, prendetevi una bella rivincita su di loro, leggendo Watchmen. Se vi sono indifferenti, leggete Watchmen e cambierete idea. Se non frequentate molto il genere (come me) e volete solo leggere una grande opera, leggete Watchmen. Non ci sono scuse!

P.S. stavolta vi risparmio la mia pedanteria e invece della sitografia vi lascio solo il banalissimo link alla pagina di wikipedia... Ci sarebbero troppe cose da dire!

giovedì 26 agosto 2010

Meditatio aestatis - IV

Sono davvero l’unico a notare la sottile pulsazione dei lampioni? Sono l’unico a sentire questo rumore di fondo, che sembra il rumore del niente ma no, non è il niente...? Sono l’unico a fissare quel punto della piazza dove l’asfalto è umettato dagli annaffiatori automatici, proprio quel punto, non un altro, quello? L’unico a spiare quel ragazzino tamarro che passa per la strada di fianco, con il ciuffo nero tirato su dal gel e la magliettina bianca stretta? L’unico a chiedersi se anche lui pensa a queste cose ogni tanto? A interrogarmi se alla fine, destrutturando un po’ il tutto, che va tanto di moda, anche lui, sotto quel ciuffo e quella magliettina, arriva alle mie stesse conclusioni, al mio senso di solitudine e di nichilismo, al senso del niente che permea alcune notti d’estate, come questa? A pensare che forse, a salvarmi, c’è solo questa mia supposta superiorità intellettuale? A concludere che poi, in fondo, è assolutamente inconsistente anche questa, davanti al lampione pulsante, al rumore di fondo, all’annaffiatore, al gel e a tutto il resto?
Sono le cose che vengono fuori nelle notti d’estate, di questa estate in particolare. Mi sovviene una frase del “Deserto dei Tartari”, parlava di solitudine, non necessariamente sentimentale, di solitudine e basta. Vado a prendere il libro da uno scaffale della mia camera, cerco la pagina. Dovrebbe essere verso i tre quarti. Mi pare fosse su una facciata a sinistra. Cerco con lo sguardo le parole chiave, “solitudine”, “dolore”, “uomini”… Altro che operatori booleani. Google a me mi fa una pippa. La trovo presto:­ “Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangano sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questi non si sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita”.
Questa sera non è quella solitudine struggente che a volte prende quelli senza nessuno accanto. Ha sempre a che fare con il dolore, la solitudine, la condizione umana, la vita e altre cose stupide alla Paulo Coelho, ma non è così pungente. È una cosa che nelle altre stagioni forse non capita. È la solitudine dell’estate, di notte. Quando una piccola piazza di provincia sembra qualcosa di vagamente alla De Chirico, la strada puzza di umidità recente, la luce artificiale copre quella naturale, e tutto quello che vorresti fare è condividere ciò con qualcuno. Ma non qualcuno a caso. Non il tamarro con gel e maglietta, sebbene in fondo in fondo tu sappia che ci arriva anche lui a queste cose, né prima di te per la sua semplicità, né dopo di te per la sua ignoranza.
Solo che lui non lo saprebbe scrivere su un diavolo di blog.

lunedì 16 agosto 2010

Visio - "Food" (Jan Svankmajer)




Ho conosciuto il praghese Svankmajer (o meglio, le sue opere) grazie a un amico artista, che mi ha coinvolto nella realizzazione di un video in stop-motion, qualche mese fa. Del nostro video ne parleremo forse un'altra volta, oggi vorrei presentare ai miei lettori (forse anche meno dei celebri venticinque di Manzoni) "Food", opera in qualche modo paradigmatica dello stile di Svankmajer. Qui l'autore padroneggia ai massimi livelli la tecnica della stop-motion e compiutamente si sviluppano i suoi classici temi: l'insensatezza dei gesti quotidiani, che si riducono alla meccanicità, la prevaricazione ingiustificata ma inevitabile del più forte sul più debole, il grottesco incedere della società al di sopra delle singole persone. L'atmosfera è surreale ma mai onirica, anzi, sempre fortemente ancorata alla concretezza e alla contingenza, cosa che risulta chiara fin dal tema generale dell'opera, il cibo appunto.

Buona visione!

Post Scriptum: la seconda parte dell'opera è visionabile qui.

Sitografia

venerdì 13 agosto 2010

Meditatio aestatis - III

Arezzo, dall’alto della sua spocchia rinascimental-cultural-enogastonomica forse non era pronta al suo arrivo. O forse era fin troppo avvezza a giochetti mediatici di quel tipo. In ogni caso è stata una cosa strana.
In un’abitazione di mattoni bruniti – chissà se era stato quello il colore originale – a due passi dalla fortezza medicea e dalla cattedrale, qualche secolo prima era nato Francesco Petrarca e lì aveva vissuto i suoi primissimi anni. Non dico che vi abbia meditato qualche verso (subito seguì il padre in esilio, e si mosse da intellettuale errabondo per tutta la vita), ma una parte del suo genio umanista deve giacere non lontano, se non altro nell’effimera forma di Genius loci. Meno di un secolo prima, la fama della città era stata legata al nome di Guittone, rimatore tanto vituperato quanto, nella sostanza dei fatti, imitato da Dante. Pietro Aretino, come si evince dal nome, deve aver in qualche misura forgiato la sua aguzza lingua di satiro non lontano da qui. Sul Vasari non mi dilungo, ché non è mia competenza, ma il nome dovrebbe bastare a confermarne l’autorevolezza.
Io sono stato conquistato, soggiogato, dai bugnati semplici ed eleganti, dalle torri svettanti, dalle mura slanciate, dalle piazze lastricate in discesa, dal campanile della Pieve di Santa Maria, dagli affreschi mozzafiato della cattedrale, dalle vinerie piene di giovani e turisti (tedeschi, ahimè) e crostini fumanti e chianti pastosi e pappardelle ruvide e sguardi di donna castana gorgia toscana zolfini poesie sandali pergolati alberghetti dove fare l’amore vicoli cantucci odore di collina polvere da sparo alabarde santi reliquie monachelle studenti seni caviglie brunello di montalcino “Or vedi, Amor, che giovenetta donna tuo regno sprezzo, et del mio mal non cura, et tra duo ta’ nemici è sì secura”…
Tutto questo prima di vederlo. Era una strafottente cazzo di faccia di cazzo già attraverso lo schermo del cazzo. Uno di quegli abietti esseri che, porca miseria, mi vergogno pure di citare, perché la mia lingua mitopoietica è atta a poetare e a fare sesso orale, non certo a gettare legna nel putrido focolare della fama di questa merda d’uomo. Ma l’evento è stato troppo perturbante per non raccontarlo.
Cosa mi è piaciuto fino all’orgasmo di Arezzo già l’ho detto. Ma la situazione era ancora più idilliaca. Ero seduto in piazza Vitruvio, le spalle al porticato profumato di collina, lo sguardo rivolto all’arcata dei palazzi centenari, alti, bruniti, tenuti su dal cielo blu-di-prussia come da un incanto o da un gancio invisibile fatto di ombre estive; alla mia destra la pieve di Santa Maria, illuminata da faretti giallognoli, faceva da contrappeso al naturale declivio che piegava verso sinistra la piazza, in discesa. Davanti a me un chianti dei colli aretini, rubino, leggero, caldo, che istintivamente (manco fossi un Proust qualsiasi) mi trascinò nel ricordo di una Siena di un anno e mezzo fa – una Siena che per me era tutta la Toscana, tutta l’Italia, il mondo intero che turbinava di sesso di amore di quadri del ‘400 e poesie biascicate fra un bicchiere e l’altro –; al tavolo a fianco, una sorta di Mezzabotta sorrideva pacato mentre portava elegantemente alla bocca una tagliatella al ragù di lepre, e la sua ragazza più giovane di venti anni almeno, un po’ svogliata, leggeva un libro in francese; dalla cattedrale, di tanto in tanto, giungevano gli echi dei botti della festa del santo patrono.
Poi una sgommata, che attirò forse a se l’ira del Genius loci petrarchesco. Flash di macchine fotografiche. Tanta gente intorno, vicino, la sentivo, mi passava di fianco, quasi addosso. Un urletto. Forse la piazza se ne accorse, Arezzo se ne accorse e si lasciò andare, come una baldracca che ormai non si trucca neanche più, una puttana che di colpo si accorge di avere tanti anni o secoli e al primo passaggio di una giovincella si fa da parte, si ritira, si nasconde.
Fabrizio Corona apparve così, in questo turbinio di decadenza, a metà fra l’antipasto e il primo, subito prima del brunello e subito dopo l’ormai noto chianti. La maglietta bianca aderente, per esaltare il disgustoso turgido convenzionale muscoletto, i tatuaggi tanti e brutti e neri, la cazzo di espressione strafottente. Passò davanti a me aspettandosi, non so, un cenno, un riconoscimento, un biasimo, insomma, una cazzo di reazione, non da me magari, dal mio tavolo, dal tavolo accanto, dalla ragazza di Mezzabotta, eppure niente, da noi niente. Così si riversò su un gruppo di ragazzotti male usciti, poi si gettò fra le braccia dell’oste, dello stesso affabile oste che poco prima mi aveva porto i miei crostini toscani ai fegatini e quelli semplici all’olio, e un assaggio di pappa al pomodoro e uno di panzanella (alla faccia della cazzo di dieta anti-carboidrati), e lui lo accoglie, lo coccola, gli dà un bel tavolo, non il migliore, non il peggiore, un bel tavolo, in vista, non troppo, se vuoi vederlo devi entrare e magari consumare. Non so se il pusillanime stronzo Corona percepisca qualcosa in denaro, ma se ben avesse solo un bicchiere di vino in cambio della sua faccetta sporca, sarebbe un turpe mercimonio. È basso e banale e ha una voce molle e disonesta, l’ho sentita a lungo, oh se l’ho sentita dal mio tavolo, per tutta la sera, o per meglio dire per tutti e venti i minuti prima di scappare dal luogo infettato. Parlò di cose inutili, non di cose scandalose né di cose morbose, parlò di una Carla e di un Jo, ombre su cui i ragazzotti di cui sopra proiettavano profili di personaggi famosi attingendo dal loro demoniaco archivio di personaggi da copertina.
Io mi chiedo ancora cosa centri lui con la mia Toscana, coi miei ricordi d’amore e di sesso e di vino, col mio umanesimo spocchioso e arrogante. Non so, sarà il mio snobismo fuori luogo, sarà la consueta voglia di darsi un tono, per forza, su tutti e contro tutto. Ma proprio, cazzo, fra i tanti personaggi un po’ famosi, lui. Non Umberto Eco, Luciano de Crescenzo, Corrado Guzzanti. Lui. A infettare questo piccolo, personalissimo, superbo angolo di spazio-tempo.

giovedì 5 agosto 2010

Iudicium - "Sono all'osso" (Pan del Diavolo)


Ponte o non ponte, La Tempesta (alias Toffolo & company) stavolta ha addirittura attraversato lo stretto, per la sua folle e personalissima crociata in difesa del rock targato Italia. Siculi sono infatti Pietro Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo, in arte Il Pan del Diavolo, che con il loro “Sono all’osso” si schierano fra le fila di Tre Allegri Ragazzi Morti, Luci della Centrale Elettrica, Zen Circus e compagnia bella.
Il disco, sulla scia dell’EP d’esordio, suona grasso e genuino, diretto ed esplosivo, penalizzato solo da una produzione un po’ troppo raffinata: ma spacca lo stesso, e lo fa solo con un paio di chitarre acustiche, una grancassa, e un piglio vagamente punk à la Violent Femmes.
Si comincia col blues-country-punk-vattelapesca di “Farà cadere lei”, in bilico fra voci urlanti e stacchi da delta del Mississipi (o è qualcosa di Siculo…?); “Pertanto”, invece, è un più scanzonato episodio di schizofrenia (“voglio fare tutto, ma tutto non si può fare [...], quindi faccio quello che mi pare”) in puro stile iu-es-ei; meravigliosa e grottesca, “Il centauro” ci porta in un ambiente (periferia? Squallida provincia?), fra il goliardico e l’osceno, immerso in un blues lento e cadenzato; con “Università”, ossia il disilluso canto di un giovane studente come tanti (e come me), si vira verso un folk più italico e personale, senza perdere in impatto e orecchiabilità; poi c’è “Blu Laguna”, ancora un pezzo al fulmicotone, fra il rock’n’roll dei primi Hormonauts e il sempiterno Buscaglione, ricco di suggestioni elvisiane e con un taglio narrativo che ricorda il Paolo Conte di “Boogie”; “Bomba nel cuore” vede la collaborazione degli Zen Circus, che con il loro apporto elettrico ci regalano un incendiario e brevissimo saggio di punk nostrano; il ritmo rallenta, e con “il boom” il duo palermitano si addentra ancora una volta nel country desertico americano, tentando un songwriting meno dirompente ma altrettanto interessante; testo bellissimo per “Il mistero dello specchio rotto” (“sarebbe stata pure l’ora, sotto la gonna ci si consola”), che riprende un po’ velocità ma soprattutto scopre un originale ritmo folk tutto meridionale; “sono all’osso” tradisce l’assioma secondo cui la title-track deve essere radiofonica o quantomeno prevedibile: accenni noise e testo irruento fanno di questo brano uno dei più originali dell’album; “Africa” convince soprattutto per il testo più disteso e malinconico; “Ciriaco” non spicca per originalità musicale, ma il testo ha alcune belle trovate (“voglio essere ricordato come cattivo”); “Scarpette a punta” riscopre il lato fiabesco della tradizione popolare, accompagnato da un inquieto e allo stesso tempo conciliante arpeggio di chitarra.
Insomma, l’ispirazione è tanta e sfaccettata. Ce n’è per tutti i gusti, ed è questa la carta vincente di Il Pan del Diavolo; certo, il livello non è sempre lo stesso, e forse una diversa distribuzione dei pezzi avrebbe reso il tutto più equilibrato.
Ma, tutto sommato, in culo all’equilibrio! I primi sei pezzi sono una manganellata fra le costole, da ascoltare tutti d’un fiato, poco importa del resto. È impressionante come due chitarre e una grancassa possano più di crash e big muff vari, quando sono in mani genuine e smaliziate come quelli di Il Pan del Diavolo.

lunedì 2 agosto 2010

Meditatio aestatis - II

Le località di mare, specialmente quelle liguri, specialmente quelle di ponente. Ci sarebbe da mettersi dall'alto a scrutarle, studiarle, scoprirne le dinamiche, le idiozie. E invece mi ci infilo da straniero, con due compari.
Le aspettative: grandi.
L'esito: enorme.
La spiaggia pubblica è fantastica, uno spicchio di entropia ghiaiosa e accattivante. M'infilo la mano in tasca e tiro fuori una moneta da due euro: il Dante incisovi sopra mi lancia uno sguardo di biasimo. Ridacchio e la lancio al barista, che ci allunga poco dopo i nostri caffè. Caldi. Come il caldo di fuori. Più del caldo di fuori. Ma si butta giù. Bè, fa schifo il caffè in questo bar. Forse nell'intero lungomare.
Ci dirigiamo verso uno spazietto di spiaggia libera, stendiamo alla benemeglio i nostri teli (il mio è corto, molto corto, mezzo stinco esce fuori e si griglia sulla ghiaia nera); lontani da ogni essere di sesso femminile con una minima parvenza di piacenza.
Mi tolgo la maglietta da nerd che ritrae una fantastica battaglia fra ninja e pirati, la arrotolo e la metto nella sacca. Il mio flaccidume pallido e smagliato è in mostra, ora. Inforco i ray-ban e mi accascio sul telo (corto). Leggo qualche pagina dell'Auerbach, forse una trentina. Forse mi addormento.
La pelle arde, poi s'impatina di umori. Magari metto la crema. Protezione to-ta-lis-si-ma. Rimarrò pallido, questo è certo, ma meglio pallido che rubicondo.
Coi due soci si parla di tante cose, tutte afferenti la sfera sessuale e tutte riguardanti le donne e tutte riguardanti le parti più sconce delle donne. Ci si lamenta, siamo lontani da ogni femmina abbordabile. Abbordabile, poi... Che "vorremmo" abbordare. Mah, uno di noi è figo. L'altro è normale. L'altro sono io. Si finisce a ridere e parlare di Giovanni Lindo Ferretti, Neruda, Umberto Smaila, Scatman, Moltheni, Cristiano Godano, Guido Gozzano. Rovisto nel cervelletto, non mi ricordo l'inizio di "il limine" di Montale. Cazzo cazzo cazzo cazzo.
Scopriamo poi, mentre i miei soci divorano dei/delle Fugassin (cose strane, buone, dolci, fritte) e io mi consolo col mio yogurt magro (che forse per contrappasso spero renda magro me, mangiandolo), che nei prossimi giorni "LA POESIA TORNA DI MODA". Sgraniamo gli occhi. Le donne saranno ai nostri piedi. Ma come cazzo fa "in limine"...?! Oggi mi servirà, se la poesia torna di moda. Le donne amano la moda. Noi siamo poeti. La poesia è di moda. Le donne amano i poeti. Le donne ci amano.
Si, ok, Aristotele è da ripassare.
E pure Montale, cazzo. C'era qualcosa sulle "gazzare", qualcosa sul "pomario". Mi sovvengono le lezioni sconclusionate e formidabili del prof. Ficara, su Montale, gli "ossi di seppia", "in limine". Ma non l'incipit, diavolacci neri.
Mi gratto il capo incrostato di salsedine, mentre ascolto i due. Sono d'accordo con loro, la poesia può funzionare. Io c'ho sempre provato. Cioè, ci ho provato una volta e ha funzionato. 100%. Colpo sicuro.
E allora ci buttiamo per le vie di Pietra Ligure mentre ad alta voce declamiamo i testi dei CSI e dei Marlene Kuntz. Dopo diversi metri ci accasciamo su una panchina sconsolati e piegati dalle risate. Ci innamoriamo di una negoziante. Ci andiamo a sciacquare a una fontana e poi a cambiare. Mangiamo una pizza OSCENA e prendiamo tre birre da asporto da 66 cl.
Ci panchiniamo di nuovo e parliamo di Fini, Berlusconi, Berlinguer, Fanfani, Peppone, Gramsci, Ratzinger, Calvino, Calvino l'altro, i quaccheri, Clinton, parliamo di me e del mio disinteresse per il bene comune e per la res publica, che di pubblico ha solo le grane.
Finisce la birra, magari si va al pub. Vecchi amici del mio socio, miei buoni e graditi conoscenti, un paio di volti nuovi. Il pub si chiama qualcosa tipo "lucertola" o "geko" o robe viscidose che camminano però. Intorno sparuti quindicenni orribili e tamarri. Poi c'è questo tipo, al nostro tavolo. I baffi, lo sguardo profondo e smarrito, la voce esile e infinita. Inizia a parlarmi di cose strane, egizi, fermentazione della birra, metempsicosi, cunicoli sotterranei di Torino, sigari. Lo ascolto ammirato e spaesato, mentre la mia birra piccola bionda non arriva.
Poi un'improponibile proposta di finire l'improponibile serata su un'improponibile spiaggia fumando improponibili canne e cantando improponibili canzoni di Ligabue. Rifiutiamo e ci dirigiamo alla macchina. Si va ad Alassio.
Che merda.
Non c'è nessuno.
I pochi che ci sono fanno schifo.
Le donne non amano la poesia nemmeno qui.
Certo, se recitassi loro in "in limine" (...vento, pomario, gazzare...). Ma in testa non arriva.
Solo un ragazzo forse slavo che ci chiede in inglese dove comprare preservativi qui alle due di notte. E se la fa con una slava bella e mora. Bravo! Massima stima. Domani saranno ad Amsterdam, mi dice.
Noi a Pietra Ligure.
La serata finisce con noi sul moletto, piedi verso l'acqua, patetici, poetici, poietici. Ascoltiamo le pisciate del mare e dei ragazzini ubriachi. Ci dondoliamo un po' sul sottile filo che divide l'essere patetici dall'essere Eletti.
E ci rimettiamo in macchina, tediati, mentre ascoltiamo gruppi noise californiani.
Ci ferma la polizia.
Gentilissima e simpatica! L'agente ci chiede i documenti, facciamo due chiacchiere, ci consiglia di accelerare lungo la via perchè più avanti ha appena lasciato andare una macchina con quattro ragazze single (e non singles, come ormai dovreste sapere).
Ce la ridiamo un po' e ripartiamo, ma non acceleriamo. La macchina era rosa, le donne con la macchina rosa non amano la poesia, anche se è di moda, non amano i poeti e forse nemmeno "in limine".
Ci infiliamo fra le colline. Ci infrattiamo con la macchina in un meandro fra le rocce. un luogo che avrei potuto usare per portarci una ragazza, una volta. E ora siamo noi tre poeti a lamentarci perchè stiamo stretti e fa freddo. Dormiamo tre ore.
Alle 7 si riscende in paese, ci si lava alla fontana della piazza, i denti, la faccia. Ci si fa una doccia sulla spiaggia, con il bagnoschiuma preso in un hotel cinque o sei anni fa. Si dorme tanto, sui teli, fino a quando il sole si fa bollente.
Poi si fa il bagno. Anche il giorno prima l'avevamo fatto, chissà perchè non l'ho detto prima. L'acqua è calda e buona e non è lurida come nei miei incubi di villeggiatura in Liguria, a ponente, a Pietra Ligure.
Quattro bei pezzi di ragazza prendono il sole, una pure in top-less. Si ride fra noi, si sogna fra noi un approccio fantascentifico ma molto poetico. Chissà se sanno che la poesia è tornata di moda. Ah, dimenticavo. "La poesia è tornata di moda" è il nome di una manifestazione orribile in cui si fanno sfilate di MODA con abiti POETICI, che dovrebbe svolgersi qui in questi giorni.
Si.
Fa schifo.
Però era tanto bella l'idea.
Saremmo stati irresistibili.
Scuoto il capo sorridendo, la pelle secca e riarsa. Mi butto sul telo fissando il cielo. Azzuro, grande, patetico pure lui. E rinfrancante.
Eccola, si. E' lei, finalmente. Mi torna in mente.

Godi se il vento ch' entra nel pomario
vi rimena l' ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario.
Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell' eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.
Un rovello è di qua dall' erto muro.
Se procedi t' imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.
Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l' ho pregato, - ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine...

(E. Montale - In Limine)


In due ore siamo di nuovo a casa, in città, soli, ognuno per se, più arrossati, più divertiti, più sconsolati. Io più spaventato. Poeti.

sabato 31 luglio 2010

Meditatio aestatis - I

Estate piena, profonda, nera, apicale. Caldo, canicola, afa. Brezza, acquazzone, grandine. Tutto procede come da manuale, un manuale strano e babilonico nelle mani di una non meglio identificata divinità. La pelle a tratti s'attacca alla pelle, umana, animale, conciata, sessuale. Scegliete voi la combinazione. Io al momento rientro nella casistica schiena-divano. Rientro anche in altre casistiche, più socialmente rilevanti: coppie scoppiate, neolaureati triennali, popolo delle città disabitate, giovani che non credono alla politica, futuri emigranti in paesi stranieri non tanto migliori dell'Italia ma che così appaiono, scrittori che non perdono tempo a non definirsi tali e che continuano a maltrattare le Camene che non si concedono loro. Più rilevanti, meno interessanti. La mia pelle adesa a quella del divano, per il sudore, non per l'usura, quando cerca di staccarsi s'arrossa e si irrita. La mia pelle si irrita spesso. Si irritava spesso, per meglio dire. Ora solo quando prendo tanto sole. E l'estate è fatta un po' per prendere il sole, sarà per questo che ce l'ha con me.
Giornata in piscina, io che studio la parabola del sole, sperando di accelerarla col mio scrutare, mentre sfoglio gli "Studi su Dante" di Auerbach (dopo dieci pagine smetto e mi metto a leggere Tex), un paio di bonazze isteriche poco lontano, già nere (e perché cazzo venite in piscina, se neanche toccate l'acqua, sgualdrine laide che altro non siete?), qualche vecchia gallina, i turisti troppo zelanti, i belli e maledetti cultori dell'epa tartarugata: difficilmente mi viene in mente un'immagine più triste; e alludo soprattutto a me stesso, sia chiaro. Bè. L'estate è questa.
Questo non è evidentemente l'anno dei pellegrinaggi e delle esplorazioni, non per me. La vena claustrale ha preso, mio malgrado, il sopravvento, quest'anno. Come ha preso il sopravvento l'asindeto, a quanto vedo, in queste righe.
Lo stilnovismo tragico di Cavalcati e il suo averroismo, a tratti mi rubano a questo perpetuo happy hour. Publio Nasone mi strappa un sorriso d'intesa. I social network (non networks, in italiano non si mette la "s" alla fine delle parole inglesi plurali) dovrebbero darmi fastidio, non so. Non si addicono al tipo dello spocchioso intellettuale conservatore vetusto elitario che mi si addice tanto bene. Ma mi stanno quasi simpatici, alla fine Eraclito voleva custodire la sua opera negli anfratti di un tempio, cosicchè noi diciamo "oh, Eraclito, che spirito aristocratico e sopraffine, ha nascosto al volgo la sua opera, perchè troppo elevata", quando alla fine i frammenti ce li abbiamo lo stesso. Mi piace questo elemento. Quindi pure io faccio così, pubblico cose inutili per darmi un tono.
Mi manca qualcosa, mi manca più di qualcosa, questa estate, ma "nasconderò [...] il vuoto che avanza", in qualche modo.
Vedo che pure l'ultima parvenza di para-letterarietà mi abbandona, meglio continuare un'altra volta.

domenica 4 luglio 2010

Iudicium - "Di questa vita menzognera"


Lo so. Non vale continuare a riciclare cose vecchie. Ma, come avrete visto, non c'è proprio niente di nuovo su cui scrivere...

Non vi ho mai parlato di uno dei miei romanzi preferiti. Che è stato scritto, piuttosto in controtendenza rispetto ai miei gusti, in questo decennio. "Di questa vita menzognera" (Feltrinelli 2003) è un grande libro per tanti motivi: innanzitutto per l'enorme cultura di Giuseppe Montasano, cultura letteraria, filosofica, popolare, politica... Montesano incasella questi tasselli iper-intellettuali in un enorme mosaico di citazioni e rimandi, con maestria e precisione; inoltre per la carrellata di personaggi, alcuni caratterizzati simbolicamente, altri psicologicamente, altri ancora in modo molto più ambiguo ed interessante (il dandy Cardano, in eterno bilico fra essere e apparire, mentire e giurare), ma tutti indimenticabili nella loro umanità grottesca; poi l'attualità, ingigantita ed esagerata ma mai distorta, con una gran dose di fantasia tutt’altro che gratuita; infine lo stile, secco, teso, mordace, vissuto (magistrale l'uso del discorso indiretto): la tastiera di Montesano tocca un po’ tutti i registri, dal tragico al demenziale al poetico, con numerose contaminazioni (anche dialettali).

La società, ci dice Montesano, imbocca strade pericolose: il popolo è un gregge pronto a seguire il primo che passa; la classe dirigente, incarnata nella famiglia dei Negromante, ben lungi dall’essere illuminata, è pacchiana, arrogante e criminale; gli oppositori individualisti, flebili fiammelle che splendono nell’oscurità generale (il dandy Cardano, l’evangelico Andrea, Bianca, Nadja, il misterioso Scardanelli) sono falliti cronici, quasi per statuto.
Ci sono speranze per il mondo di oggi? E’ ancora possibile salvarsi dalla falsità e dalla corruzione imperanti, come auspica Scardanelli, “perché una rosa è una rosa, il pane è il pane, la bellezza è la bellezza”? Forse la risposta è nella poesia di Blok da cui Montesano prende il titolo del suo romanzo:

"Ma di questa vita menzognera
cancella l'untuoso rossetto
e, come talpa timida, nasconditi
sotto terra alla luce ed impietrisci,
tutta la vita odiando con ferocia
e tenendo in disprezzo questo mondo,
e anche non vedendo l'avvenire,
dì no ai giorni del presente."

venerdì 4 giugno 2010

Iudicium - "Essere e avere"


Un'altra cosa vecchiotta (un paio d'anni fa), dall'archivio del mio vecchio blog. Rileggendola, mi ha affascinato il discorso fictio-realtà, di cui ho recentemente parlato qui. Inoltre, al tempo, ero in un mood (oddio che fastidio l'anglicismo gratuito. Ma proprio non ho voglia di cercare sinonimi, ora) piuttosto simile a quello odierno. Il film, a distanza di otto anni, rimane un ottimo manuale empirico di pedagogia, ma anche un modo per tornare bambini e, perché no, per commuoversi.
In controtendenza rispetto allo spirito epico che da un po' si è impossessato di me (di noi?), vi consiglio un film eccezionale. E' vero, sarebbe meglio parlare di documentario, ma se, come dice Bergman, "non c'é nessuna forma d'arte come il cinema per colpire la coscienza, scuotere le emozioni e raggiungere le stanze segrete dell'anima", Essere e avere di Nicolas Philibert non ha niente da invidiare alla finzione. Uscito nel 2002 e pluripremiato un po' ovunque, Essere e avere racconta (o meglio, spia) la vita di una scuola elementare di un piccolissimo paesino dell'Auvergne, nel cuore della Francia montana e agricola.
Philibert, mai troppo invasivo, sa scegliere i momenti più toccanti e interessanti, montandoli con spirito poetico ma mai stucchevole. I bambini vivono una loro vita magica, a scuola, guidati da un umanissimo e competente maestro sulla via della pensione. A metà strada fra opera pedagogica, riflessione "fanciullesca", utopia bucolica e commovente ritratto dei tipi umani, Essere e avere merita una mezione particolare nel panorama dei documentari. Non sono la frenesia e lo zelo politico di Moore a dominare, nemmeno la (sacrosanta) indignazione democratica della Guzzanti, ma uno stile piano e distensivo, dettagliato, attento alle rughe d'espressione e alle linee di sguardi (fra i bambini e l'ambiente circostante), come alle parole che passerebbero in secondo piano (il "tu sei mio amico?" sussurrato mentre il maestro spiega).
Si dice non ci sia molto spazio nel panorama cinematografico per il genere documentario, ma se c'è più che una mera ripresa oggettiva non vedo cosa manchi all'opera di Philibert: ci si affeziona a Jojo, a Olivier e a tutti gli altri ragazzi, alle loro famiglie, al maestro, alle loro vicende; e il tutto senza artifici retorici o teorie sull'immedesimazione, ma solo con un grande spirito pedagogico e un notevole interesse umano.

P.S. Da vedere OBBLIGATORIAMENTE senza doppiaggio! Bastano i sottotitoli, vi perdereste la divertentissima pronuncia francese dei bambini...

venerdì 28 maggio 2010

Iudicium - "Vinland Saga"


Il medioevo, ormai l'avrete capito, ha un certo ascendente su di me. E dopo una piccola concessione al rinascimento (sto parlando della breve introduzione a "Cesare"), è arrivato il momento di tornare al dolce anno mille. E' intorno a questa data, infatti, che si snodano le vicende di "Vinland Saga", manga di Makoto Yukimura, dal nome evocativo quanto ineluttabilmente pretenzioso: la mente corre subito alle grandi saghe nordiche, ai cicli epici norreni, alla mitologia scandinava. Pretenzioso, ma non ingiustificato. I riferimenti storici sono molti e molto precisi - oddio, non siamo ai livelli di "Cesare", ma comunque a uno standard elevato - così come le ricostruzioni di villaggi, armi, armature, imbarcarzioni...
Nonostante ciò, "Vinland Saga" può difficilmente essere considerato tout-court un fumetto storico; più efficacemente si può definire un manga d'azione di ambientazione storica. La vicenda parte, come da tradizione, in medias res, con l'assalto di un gruppo di vichinghi, comandato dal crudele ma ironico Askeladd, a un villaggio franco: nel gruppo degli assalitori spicca Thorfinn, un giovane cupo, taciturno e dotato di un'isolita abilità nel combattimento. Thorfinn si rivela presto come il vero protagonista della saga, grazie al lungo flashback sulla sua infanzia e sull'enigmatica figura del suo defunto padre, Thors. Il riferimento storico più evidente è quello che dà il titolo all'opera, ossia il Vinland, leggendaria regione del Canada occupata dai vichinghi nell'XI secolo; è presente anche il personaggio di Leif Eiriksson, lo scopritore, secondo le saghe norrene, del nuovo mondo: non ci è ancora dato sapere che ruolo avranno questi elemeti nel proseguo della serie (in Italia ancora al secondo numero), ma di certo i pochi riferimenti emersi fino ad ora fanno presagire che saranno centrali.
Al di là del valore storico, l'autore dimostra buone doti grafiche e narrative, una discreta capacità di costruzione dei personaggi e una notevole abilità per quanto riguarda le scene d'azione; il riferimento più esplicito è a "Berserk", tanto per la preponderanza dei combattimenti (in barba al realismo, nella maggior parte dei casi) quanto per l'importante ruolo che riveste il passato all'interno della narrazione: il flashback non può non ricordare quello che, nell'opera di Miura, narra la giovinezza di Gatsu e il suo ingresso nella squadra dei falchi.
Due numeri sono pochi per dire di più, mi limito a constatare che ci sono le premesse per una buona avventura che, alla faccia della letteratura d'evasione, non vuole rinunciare all'esattezza filologica e alla tanto vituperata "complessità".

Makoto Yukimura, Vinland Saga, Star Comics (numero 1: febbraio 2010, attualmente in uscita il numero 2)

Breve sitografia

domenica 23 maggio 2010

Iudicium - "Fringe"


"Fringe" è senza dubbio colpevole. Colpevole di avermi fatto cadere nel baratro delle serie televisive. Il genere "serie", a dire il vero, non è una novità per me: fumetti, saghe cinematografiche e letterarie, etc... Ma di serie televisive n0n mi ero mai infatuato. Ora è la rovina. Non solo seguo ne con regolarità diverse, ma grazie ai miracoli di internet posso colmare enormi buchi nella mia cultura popolare.
Insomma, tanto tempo perso.
Fringe, la nuova gallinella dalle uova d'oro di J. J. Abrams, è una serie di fantascienza o, per meglio dire, di pseudo-scienza: mondi paralleli, telepatia, poteri paranormali sono le sfide che attendono la divisione Fringe dell'FBI (in Italiano suona qualcosa come "la frangia"), composta dall'agente Olivia Dunham, dallo scenziato Walter Bishop e da suo figlio Peter. Al contrario di X-files, che senza dubbio rappresenta un importante precedente per serie, niente è ammantato di mistero: tutto è spiegato razionalmente, tutto rientra in un coerente (ma non troppo, pur sempre di fictio si tratta!) sistema scientifico. Interessanti le trame, che spesso seguono l'ormai classico ntreccio poliziesca stile CSI; i singoli episodi sono però inseriti in una continuity affascinante e complessa (e qui esce fuori il marchio di fabbrica Abrams). L'ambientazione, poi, è bellissima: niente tecnologie all'avanguardia e ricerca compiuterizzata, ma un vecchio laboratorio anni '70.
Insomma, se la fine di Lost vi lascerà molto tempo libero, sapete dove rifugiarvi.

sabato 22 maggio 2010

Alius Carmen - "Ai faux ris, pour quoi traï avés"


Di Dante se ne parla tanto, ma mai troppo. Un paio di anni fa, sul mio vecchio blog, ebbi modo di constatare come Dante si fosse trasformato da incubo liceale ad auctoritas prediletta dopo giusto un paio di corsi universitari ben piazzati. Ora che nel medioevo ci sguazzo gaiamente, non posso che adorare alla follia Dante. Quello che mi ha sempre colpito dell'Alighieri è l'uso davvero disinvolto, espressivo, competente e diversificato della lingua.
Prova ne sarebbe questa composizione; dico "sarebbe" perchè, nonostante i critici siano oggi concordi nell'attribuirla a Dante, a lungo si è ritenuta spuria. La caratteristica principale della poesia è quella di essere scritta in tre lingue diverse: francese antico, latino e italiano; l'effetto è fortemente straniante e nonostante il tema, non dei più originali, il risultato è interessantissimo. Per farvi rendere conto della struttura linguistica del componimento, ho usato il grassetto per i versi in italiano, il corsivo per quelli in francese e il tondo per quelli in latino.


Ai faux ris, pour quoi traï avés
oculos meos? Et quid tibi feci,
che fatta m'hai così spietata fraude?
Iam audivissent verba mea Greci.
E selonch autres dames vous savés
che 'ngannator non è degno di laude.
Tu sai ben come gaude

miserum eius cor qui prestolatur:
je li sper anc, e pas de moi non cure.
Ai Dieus, quante malure
atque fortuna ruinosa datur
a colui che, aspettando, il tempo perde,
né già mai tocca di fioretto il verde.

Conqueror, cor suave, de te primo,
ché per un matto guardamento d'occhi
vous non dovris avoir perdu la loi;
ma e' mi piace che li dardi e i stocchi
semper insurgant contra me de limo,
dount je seroi mort, pour foi que je croi.
Fort me desplait pour moi,

ch'i' son punito ed aggio colpa nulla;
nec dicit ipsa: "malum est de isto";
unde querelam sisto.
Ella sa ben che, se 'l mio cor si scrulla
a penser d'autre, que d'amour lesset,
le faux cuers grant paine
an porteret.
Ben avrà questa donna cor di ghiaccio
e tant d'aspresse que, ma foi, est fors,
nisi pietatem habuerit servo.
Bien set Amours, se je non ai socors,
che per lei dolorosa morte faccio
neque plus vitam, sperando, conservo.
Ve omni meo nervo,
s'elle non fet que pour soun sen verai
io vegna a riveder sua faccia allegra.
Ahi Dio, quant'è integra.
Mes je m'en dout, si gran dolor en ai:
amorem versus me non tantum curat
quantum spes in me de ipsa durat.
Cianson, povés aler pour tout le monde,
namque locutus sum in lingua trina,
ut gravis mea spina
si saccia per lo mondo. Ogn'uomo senta:
forse pietà n'avrà chi mi tormenta.
(Dante, tutte le opere, Newton Compton editori, Roma 2007, pp. 769-770)



Breve sitografia


martedì 18 maggio 2010

Carmen - "Camera egobarica per la salvaguardia di Io e Super-io"


...Tabula rasa si diceva. Cancellare tutto e ricominciare da capo. Ma a parte il fatto che, in barba alla virtualità di internet, i miei vecchi scritti sono tutt'altro che cancellati, forse ogni tanto fa bene rileggersi. Per ridersi un po' addosso e accorgersi di quanto si fosse stupidi.

Correva l'anno 2005 e il sottoscritto era in piena fase maudits. Era il periodo in cui leggevo (male) un po' di tutto e mi sentivo pervaso dal sacro fuoco dell'arte. Perchè poi indugiare su questi "ero giovane e illuso", "credevo di poter cambiare il mondo", "si stava meglio quando si stava peggio", "non ci sono più le mezze stagioni", etc...? Sono passati cinque anni, ero uno stupido diciassettene, ora sono uno stupido ventiduenne. Poco di guadagnato.

Dovrei farmi uno schema di quello che scrivo, perdo il filo come niente (che birbaccione che sono, nascondere il mio tentativo di mimesi del discorso realistico informale dietro un post, con tanto di strizzatina d'occhio fra parentesi per il lettore esperto). Dicevo: cinque anni fa scrissi questa posia, "ispirato" dall'istallazione artistica di Doppioniro (ho cercato il suo sito su internet ma sembra non esistere più) dall'omonimo titolo. Sul mio vecchio blog era piaciuta, così la trasformai in un pezzo recitato per i Varanasi, il gruppo in cui suonavo allora. L'anno successivo la pubblicai su un altro blog e su un sito di scrittura. Non è poi così male, ero un diciassettenne cazzuto e davvero affascinante.
Leggere per credere:


Camera egobarica per la salvaguardia di Io e Super-io

Cauta, la figura bianca si riflette su quel muro. Incessante, il viola dell’omega ottunde i nodi dell’anima e, colanti come fili di ambrosia, dal soffitto cadono i ricordi. Rimozione, sogno e simbiosi sono le regole del gioco: quel neutro pulviscolo di uomo logorato dall’abnorme pulsione dell’oblio, sconquassato dall’idioma incomprensibile del suo totem-spirito, levita aspettando il contatto e la fusione delle carni con la calce del mondo. E, sublimazione dopo sublimazione, un circolo deformato di regole a contestare l’essenza dei sogni, un imperativo categorico come unica fonte di vita, cancellando l’idea di un nucleo umano, troppo umano per essere condiviso. Brevi, misere e laconiche soluzioni in questa stanza inumidita, prendere le due apparentemente uguali alternative e congiungerle con una “e”...
Non è facile suonare lo strumento della mente.


Ah bè, si, tecnicamente non è proprio una poesia. Colpa di Ribaud e Baudelaire.

sabato 15 maggio 2010

Alius Carmen - "Occitania"


Tralasciando la (ormai fastidiosa?) retorica pro-occitana, mettendo da parte il grottesco fatto che il testo era sul sito del "movimento giovani padani", che continua ad avere problemi di identità, dichiarandosi celtico-occitano-germanico-comunardo (spassosissimo il sito, che si fregia, nella sua grafica, di Alberto da Giussano e Mel Gibson nei panni di William Wallace, il tutto condito da una onciale davvero fuori luogo), passando oltre l'affaire Ferretti, di cui ho già scritto in un altro tempo e in un altro luogo, resta una gran bella poesia.


Occitania (Giovanni Lindo Ferretti)

Di là dal mio crinale, da cui si vede il mare,
d’autunno e in primavera con il tramonto sale
l’odore degli orti, il suono delle corti
un gusto di equilibrio, di misura
“mezura” che non dura.

s’intristisce la sera tra echi di dolore
e canti di preghiera:
è l’Occitania, che ancora si dispera.
Occitania: le donne, i cavalieri, i trovatori
i Catari, le corti d’amore.

Di là dal mio crinale, da cui si vede il mare,
d’autunno e in primavera con il tramonto sale
l’odore degli orti, il suono delle corti
un gusto di equilibrio, di misura
“mezura” che non dura.

Ai soldati che chiedono:
-come distingui un Cataro da ogni buon cristiano?-
Simone di Monfort,
comandante del Re in dotazione al Papa per la prima crociata,
risponde: -Uccideteli tutti: Dio riconosce i suoi-
Detto. Fatto. Uccisi tutti.
Occitans tous occis.

Di là dal mio crinale, da cui si vede il mare,
d’autunno e in primavera con il tramonto sale
l’odore degli orti, il suono delle corti
un gusto di equilibrio, di misura
“mezura” che non dura.

La notte inghiotte la sera,
sfiora la rosa, sfiora la lavanda
il giglio di Lorena con la croce di Roma
qui massacra e comanda:
non s’osi vivere, se non in penitenza
ubbidienza indulgenza.
Guai alle donne che devono servire
partorire in dolore, guai a chi le difende
e guai, guai a chi si arrende.
Monsegur anno 1244.

Occitans tous occis,
al rogo gli occitani: vecchi donne bambini
vivi morti feriti, malati e sani.

Al rogo gli Occitani!
e ancora gli par poco:
se ne infanga la memoria,
sbagliando la materia.
Il fango si fa terra,
germoglia e fiorisce la storia

Di là dal mio crinale, da cui si vede il mare,
d’autunno e in primavera con il tramonto sale
l’odore degli orti, il suono delle corti
un gusto di equilibrio, di misura
“mezura” che non dura.

la notte inghiotte la sera:
sfiora la rosa, inacidisce il miele
le donne d’Israele s’intristiscono in lor cuore
sanno che va male, va male a peggiorare
sanno di già che diaspora
diventa shoah.

Che i forni crematori sono il progresso dei roghi.
I forni crematori sono il progresso dei roghi.

Ma di là dal mio crinale, da cui si vede il mare,
d’autunno e in primavera con il tramonto sale
l’odore degli orti, il suono delle corti
un gusto di equilibrio, di misura
“mezura” che non dura.

s’intristisce la sera tra echi di dolore
e canti di preghiera:
è l’Occitania, che ancora si dispera.
E' l’Occitania, che ancora si dispera.


Breve sitografia ragionata:


Fastidioso addendum: la traduzione italiana del brano di Cesario che vi ho segnalato è abbastanza una porcata, essendo fatta dall'inglese. Chiedo venia.

venerdì 14 maggio 2010

Iudicium - "Cesare, il creatore che ha distrutto"


Sulla validità artistica del genere fumetto, tanto s'è discusso. è opinione diffusa, ormai, che non si tratti di un mezzo di puro intrattenimento, ma che possa competere, tanto sul versante pittorico quanto su quello letterario, con l'arte propriamente detta.
Il caso di "Cesare, il creatore che ha distrutto" è però diverso. Qui non si tratta solamente di dimostrare che la storia è profonda e complessa come quella di un romanzo, che i personaggi sono ben caratterizzati e psicologicamente realistici come accade nella grande letteratura, che alcune trovate nel disegno e nelle tavole sfiorano gli esiti della pittura tradizionale e rivaleggiano con i migliori esempi di regia cinematografica.
"Cesare", ora possiamo dirlo, è un fumetto storico, e come tale impone una riflessione più ampia, sul rapporto fra fictio e realtà: quanto un'opera narrativa può essere strumento di conoscenza della storia? In che misura il calarsi nella storia in prima persona favorisce la comprensione di quest'ultima?
Certo è che Fuyumi Soryo, l'autrice, è stata in grado finora di districarsi con precisione e verosimiglianza in questo ambito.
Già, perché l'autrice è giapponese, e dunque "Cesare" è un manga. Il che complica ancora di più la faccenda: qual è la percezione della storia occidentale, agli occhi di una orientale? Favorisce la libertà di agire indiscriminatamente sui fatti storici, o induce a comportarsi, per il distacco dalla materia, con filologica attenzione alle fonti?
Procediamo con ordine.
La serie, attualmente giunta in Italia al numero 7, narra la vita e le gesta di Cesare Borgia, personaggio complesso ed enigmatico del rinascimento italiano, vista attraverso gli occhi dell'ingenuo Angelo da Canossa, suo compagno di studi all'Università di Pisa. Per ora è difficile ipotizzare dove la serie andrà a parare (l'autrice ha dichiarato di voler realizzare una serie di ampio respiro, nell'ordine di grandezza di qualche decina di volumi): gli spunti sono molti, a partire dalla progressiva stratificazione del personaggio di Cesare, per passare alle relazioni di amicizia, affetto, odio dei protagonisti, fino agli intrighi e alle congiure che pervadono gli ambienti politici rinascimentali.
Quel che è certo, e qui torniamo alla vexata quaestio, è che la Soryo non sottovaluta le difficoltà di confrontarsi con la "storia" con la S maiuscola (quella che gli inglesi chiamano history in contrapposizione con la story); da qui, la scelta di avvalersi di Motoaki Hara, docente presso la Kurashiki Sakuyo University, conoscitore della storia e della cultura dell'Italia medievale e rinascimentale, che cura l'aspetto filologico dell'opera, compito finora svolto egregiamente. Da parte sua, la Soryo è un'esperta conoscitrice dell'arte del Bel Paese, ne ha studiato gli esponenti ed è in grado di riprodurne (o ricostruirne) lo stile.
Insomma, il prodotto finale è ottimo, può essere incluso senza esitazioni nel genere del romanzo storico, e forse può anche spiccare all'interno di esso, principalmente per un motivo: l'intento divulgativo. Infatti, tutta l'opera è costellata da annotazioni a margine su tutti quei fatti e quegli aspetti che il lettore orientale (ma anche quello occidentale) può avere difficoltà nel capire; così il fumetto diventa un saggio divulgativo di storia sociale e politica del rinascimento, un vademecum di arte del '400 italiano, un'introduzione alla cultura del periodo. Il tutto, corredato da schede, glossari e, udite udite, una sintetica ma pregevolissima bibliografia (destinata, ovviamente, al pubblico giapponese, sebbene molti titoli siano italiani). Anche la focalizzazione narrativa, incentrata sul personaggio del giovane Angelo, favorisce una lettura didattica: Angelo, ragazzo umile e ingenuo, fuori dagli intrighi del tempo e dalla società aristocratica, scopre man mano, insieme al lettore, l'ambiente in cui vive, i suoi misteri e le sue meraviglie.
Insomma, per rispondere al quesito iniziale, sì, il fumetto può essere uno strumento per conoscere la storia, in modo forse più soggettivo ed emozionale rispetto ai metodi tradizionali, ma proprio per questo più efficace. Quando poi il prodotto è filologicamente attento, ben scritto, ben disegnato e in un'edizione pregevolissima (brava Star Comics!), come accade per "Cesare", non si può far altro che plaudire al genio nipponico.

Fuyumi Soryo, Motoaki Hara (a cura di), Cesare, il creatore che ha distrutto, Star Comics (numero 1: ottobre 2007, attualmente in uscita il numero 7)

mercoledì 12 maggio 2010

Exordium


Per giorni, mesi, anni, capita di non scrivere.
Ogni tanto, magari, ci si affaccia timidamente su un foglio elettronico, si scribacchia qualcosa, poi si cancella.
Un mattino di una finta primavera, però, in pigiama, dopo tre caffè, può succedere che si prenda coraggio e si inventi un nuovo blog (per queste cose, i minestroni riscaldati non funzionano. Bisogna ricominciare da capo, chiudere e riaprire, tabula rasa).

L'incertezza è tale da farmi usare tutti verbi impersonali. Suvvia, un po' di palle.

Dovrei farmi una doccia, far fruttare la giornata, ma il ruolo di inetto è di gran lunga più interessante.

Sì, devo ammetterlo, mi mancava lo scrivere due parole e poi cancellarle subito per trovarne di più adeguate. E rileggere tutto ogni trenta secondi. E accorgermi che non fila. E ricominciare.
Spero solo di non ritrovarmi ancora una volta a chiudere tutto, stizzito, e cancellare ogni traccia di me e del blog.

Devo farmi una doccia, cazzo.

Per non parlare poi del piacere nell'usare le parolacce. Con disinvoltura. Magari stavolta non cancello tutto. Ecco, questa nuova piattaforma per i blog salva automaticamente tutto, ogni tanto. Magari la stizza non l'avrà vinta.
Mi sento abbastanza stupido nello scrivere questo post. Però da qualche parte bisogna pur ricominciare.

Cawarfidae