sabato 28 agosto 2010

Iudicium - "Watchmen"

Per noi europei non è facile capire la profondità dei supereroi americani. Sono un prodotto che apprezziamo e consumiamo, ma come puro oggetto di intrattenimento. Per gli americani invece sono qualcosa di più: sono la loro mitologia. Si, noi abbiamo l’Iliade, l’Odissea, secoli e secoli di letteratura, un patrimonio di immagini, situazioni, archetipi che arricchiscono il nostro ipertrofico immaginario collettivo; loro no, sono lì da due o tre secoli appena, la loro storia più antica riguarda la conquista dell’ovest, i padri pellegrini, David Crockett e poco altro. Dove far giacere i tanto adorati “valori tradizionali”? Da quale patrimonio attingere immagini, metafore, esempi? Dalla tradizione europea, certo; ma l’alterità americana, di cui tanto loro si vantano e su cui, volente o nolente, si costruiscono la loro immagine, ha avuto bisogno, a partire almeno dagli anni della grande depressione, di nuovi dei e nuovi eroi, nuovi modelli di riferimento e nuove basi su cui modellare il sogno americano. E cosa più dei supereroi incarna il mito del selfmade-man, della giustizia fai-da-te figlia della corsa al west, della dirompente voglia di emergere come singola personalità all’interno della società?
Non a caso, dopo appena sessant’anni, Superman, Batman, Spiderman, Flash (e chi più ne ha più ne metta) sono a buon diritto entrati nell’immaginario collettivo anche per noi europei (che viviamo ormai di riflesso alle mode statunitensi – ironica la sorte, eh?); per gli americani sono invece le basi della cultura popolare, del linguaggio, della morale, sono una vera e propria mitologia, appunto.
E come per tutti i linguaggi ad alto grado di formalizzazione, anche quello supereroistico è “affetto” da un retorica spesso fastidiosa. Che sia la retorica dell’eroe senza macchia, alla Superman, o quella del vigilante oscuro e mascherato, in stile Batman, poco importa; il carattere mitologico comporta una stilizzazione dei caratteri e dei topoi e tende a presentare un manicheismo marcato (per noi europei addirittura stucchevole).
Non è un caso che sia proprio un inglese, Alan Moore, a rimescolare le carte in tavola: l’autore di Watchmen, quello che da molti è ritenuto il capolavoro dei comics “all’americana”, in nessuna delle sue opere si mostra indulgente verso gli standard del genere supereroistico. Anzi, proprio in Watchmen (uscito fra il 1985 e 1986, in 12 numeri) Moore opera un ribaltamento dei tradizionali caratteri degli eroi in calzamaglia: i supereroi – che non vengono mai chiamati con questo nome, ed è già un segnale – non hanno poteri né ambizioni né competenze paragonabili a quelle di un Superman o di un Batman o di uno Spiderman; sono uomini e donne comuni che, per un motivo o per l’altro, hanno indossato un costume e si sono dati alla giustizia personale. Non ci sono, in Watchmen, il bene e il male, ci sono solo opinioni diverse, e l’autore ben si guarda dal dare giudizi a proposito (se proprio ci si vuole fare un’idea della posizione di Moore, meglio volgersi a "V per vendetta", altro suo capolavoro). Il tutto si configura come una riflessione sul potere e sull’autorità: fino a che punto ha senso il concetto di autorità costituita? Dove finisce la responsabilità dello stato e dove inizia quella del vigilante? L’eroismo è un motivo sufficiente per darsi il potere di imporre la propria giustizia, o è solo l’anticamera del fascismo? E nel caso, sarebbe poi così sbagliato?
Questi temi, trattati con una profondità mai vista nel mondo dei comics (se non in Miller, "Il ritorno del cavaliere oscuro", non a caso degli stessi anni), non sempre possono essere compresi da noi europei, perché le categorie politiche americane sono parecchio diverse dalle nostre; Moore ne è cosciente, e gioca spesso con l’ambiguità statunitense nel parlare di fascismo, comunismo e democrazia.
Oltre a essere un’analisi politica, Watchmen è la rappresentazione di tante piccole personalità, ognuna profondamente umana (con l’eccezione, di cui parleremo dopo, del Dottor Manhattan), con i propri sogni, il proprio passato, la propria morale e le proprie speranze; è un discorso sulle pazzie della folla e della società di massa, sempre sull’orlo di trasformarsi in branco; è una meditazione sui limiti della scienza e sulle sue grandi potenzialità; è una riflessione sulla divinità, sul trascendente, incarnati nel personaggio del Dottor Manhattan, l’unico fornito di superpoteri, che vive nel mondo ma al di là di esso, che conosce la realtà al di là del tempo e delle illusioni sensibili; insomma, i piani del discorso sono numerosi e tutti affrontati con profondità e originalità. Si potrebbe quasi dire che Moore si serva di un universo supereroistico solo per avere un quadro di riferimento ben preciso, un’ambientazione che gli permetta, in termini mitologico-simbolici, di affrontare un vasto spettro di problemi diversi, attingendo alla più popolare delle mitologie contemporanee, quella appunto dei comics americani.
Da un punto di vista letterario, Watchmen eccelle per la magistrale gestione della materia narrativa e dei tempi del racconto, sempre dosati alla perfezione e mai pesanti o frenetici; l’azione è quasi inesistente, e dove c’è è funzionale al discorso generale; il racconto si dipana su più livelli temporali, retti da un buon sistema di flashback e digressioni; i dialoghi cercano di evitare la retorica, sebbene qualche piccola concessione “epica” sia presente.
Gibbons, alle matite, sfoggia un tratto piacevole ma tutto sommato non originale; il design dei personaggi è curato e suggestivo, ma non si tratta di un innovatore come Miller, per esempio. La grandezza di Gibbons sta nel taglio fortemente registico e nei dettagli: numerosi sono i riferimenti iconici e simbolici sparsi nell’opera, come le rappresentazioni di orologi, piramidi, smile; mai gratuiti, sempre ancorati alla storia, ma allo stesso tempo investiti di una specificità appunto simbolica, quindi in una certa misura trascendente.
Insomma, se amate i fumetti americani, non potete non leggere Watchmen. Se li detestate, prendetevi una bella rivincita su di loro, leggendo Watchmen. Se vi sono indifferenti, leggete Watchmen e cambierete idea. Se non frequentate molto il genere (come me) e volete solo leggere una grande opera, leggete Watchmen. Non ci sono scuse!

P.S. stavolta vi risparmio la mia pedanteria e invece della sitografia vi lascio solo il banalissimo link alla pagina di wikipedia... Ci sarebbero troppe cose da dire!

giovedì 26 agosto 2010

Meditatio aestatis - IV

Sono davvero l’unico a notare la sottile pulsazione dei lampioni? Sono l’unico a sentire questo rumore di fondo, che sembra il rumore del niente ma no, non è il niente...? Sono l’unico a fissare quel punto della piazza dove l’asfalto è umettato dagli annaffiatori automatici, proprio quel punto, non un altro, quello? L’unico a spiare quel ragazzino tamarro che passa per la strada di fianco, con il ciuffo nero tirato su dal gel e la magliettina bianca stretta? L’unico a chiedersi se anche lui pensa a queste cose ogni tanto? A interrogarmi se alla fine, destrutturando un po’ il tutto, che va tanto di moda, anche lui, sotto quel ciuffo e quella magliettina, arriva alle mie stesse conclusioni, al mio senso di solitudine e di nichilismo, al senso del niente che permea alcune notti d’estate, come questa? A pensare che forse, a salvarmi, c’è solo questa mia supposta superiorità intellettuale? A concludere che poi, in fondo, è assolutamente inconsistente anche questa, davanti al lampione pulsante, al rumore di fondo, all’annaffiatore, al gel e a tutto il resto?
Sono le cose che vengono fuori nelle notti d’estate, di questa estate in particolare. Mi sovviene una frase del “Deserto dei Tartari”, parlava di solitudine, non necessariamente sentimentale, di solitudine e basta. Vado a prendere il libro da uno scaffale della mia camera, cerco la pagina. Dovrebbe essere verso i tre quarti. Mi pare fosse su una facciata a sinistra. Cerco con lo sguardo le parole chiave, “solitudine”, “dolore”, “uomini”… Altro che operatori booleani. Google a me mi fa una pippa. La trovo presto:­ “Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangano sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questi non si sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita”.
Questa sera non è quella solitudine struggente che a volte prende quelli senza nessuno accanto. Ha sempre a che fare con il dolore, la solitudine, la condizione umana, la vita e altre cose stupide alla Paulo Coelho, ma non è così pungente. È una cosa che nelle altre stagioni forse non capita. È la solitudine dell’estate, di notte. Quando una piccola piazza di provincia sembra qualcosa di vagamente alla De Chirico, la strada puzza di umidità recente, la luce artificiale copre quella naturale, e tutto quello che vorresti fare è condividere ciò con qualcuno. Ma non qualcuno a caso. Non il tamarro con gel e maglietta, sebbene in fondo in fondo tu sappia che ci arriva anche lui a queste cose, né prima di te per la sua semplicità, né dopo di te per la sua ignoranza.
Solo che lui non lo saprebbe scrivere su un diavolo di blog.

lunedì 16 agosto 2010

Visio - "Food" (Jan Svankmajer)




Ho conosciuto il praghese Svankmajer (o meglio, le sue opere) grazie a un amico artista, che mi ha coinvolto nella realizzazione di un video in stop-motion, qualche mese fa. Del nostro video ne parleremo forse un'altra volta, oggi vorrei presentare ai miei lettori (forse anche meno dei celebri venticinque di Manzoni) "Food", opera in qualche modo paradigmatica dello stile di Svankmajer. Qui l'autore padroneggia ai massimi livelli la tecnica della stop-motion e compiutamente si sviluppano i suoi classici temi: l'insensatezza dei gesti quotidiani, che si riducono alla meccanicità, la prevaricazione ingiustificata ma inevitabile del più forte sul più debole, il grottesco incedere della società al di sopra delle singole persone. L'atmosfera è surreale ma mai onirica, anzi, sempre fortemente ancorata alla concretezza e alla contingenza, cosa che risulta chiara fin dal tema generale dell'opera, il cibo appunto.

Buona visione!

Post Scriptum: la seconda parte dell'opera è visionabile qui.

Sitografia

venerdì 13 agosto 2010

Meditatio aestatis - III

Arezzo, dall’alto della sua spocchia rinascimental-cultural-enogastonomica forse non era pronta al suo arrivo. O forse era fin troppo avvezza a giochetti mediatici di quel tipo. In ogni caso è stata una cosa strana.
In un’abitazione di mattoni bruniti – chissà se era stato quello il colore originale – a due passi dalla fortezza medicea e dalla cattedrale, qualche secolo prima era nato Francesco Petrarca e lì aveva vissuto i suoi primissimi anni. Non dico che vi abbia meditato qualche verso (subito seguì il padre in esilio, e si mosse da intellettuale errabondo per tutta la vita), ma una parte del suo genio umanista deve giacere non lontano, se non altro nell’effimera forma di Genius loci. Meno di un secolo prima, la fama della città era stata legata al nome di Guittone, rimatore tanto vituperato quanto, nella sostanza dei fatti, imitato da Dante. Pietro Aretino, come si evince dal nome, deve aver in qualche misura forgiato la sua aguzza lingua di satiro non lontano da qui. Sul Vasari non mi dilungo, ché non è mia competenza, ma il nome dovrebbe bastare a confermarne l’autorevolezza.
Io sono stato conquistato, soggiogato, dai bugnati semplici ed eleganti, dalle torri svettanti, dalle mura slanciate, dalle piazze lastricate in discesa, dal campanile della Pieve di Santa Maria, dagli affreschi mozzafiato della cattedrale, dalle vinerie piene di giovani e turisti (tedeschi, ahimè) e crostini fumanti e chianti pastosi e pappardelle ruvide e sguardi di donna castana gorgia toscana zolfini poesie sandali pergolati alberghetti dove fare l’amore vicoli cantucci odore di collina polvere da sparo alabarde santi reliquie monachelle studenti seni caviglie brunello di montalcino “Or vedi, Amor, che giovenetta donna tuo regno sprezzo, et del mio mal non cura, et tra duo ta’ nemici è sì secura”…
Tutto questo prima di vederlo. Era una strafottente cazzo di faccia di cazzo già attraverso lo schermo del cazzo. Uno di quegli abietti esseri che, porca miseria, mi vergogno pure di citare, perché la mia lingua mitopoietica è atta a poetare e a fare sesso orale, non certo a gettare legna nel putrido focolare della fama di questa merda d’uomo. Ma l’evento è stato troppo perturbante per non raccontarlo.
Cosa mi è piaciuto fino all’orgasmo di Arezzo già l’ho detto. Ma la situazione era ancora più idilliaca. Ero seduto in piazza Vitruvio, le spalle al porticato profumato di collina, lo sguardo rivolto all’arcata dei palazzi centenari, alti, bruniti, tenuti su dal cielo blu-di-prussia come da un incanto o da un gancio invisibile fatto di ombre estive; alla mia destra la pieve di Santa Maria, illuminata da faretti giallognoli, faceva da contrappeso al naturale declivio che piegava verso sinistra la piazza, in discesa. Davanti a me un chianti dei colli aretini, rubino, leggero, caldo, che istintivamente (manco fossi un Proust qualsiasi) mi trascinò nel ricordo di una Siena di un anno e mezzo fa – una Siena che per me era tutta la Toscana, tutta l’Italia, il mondo intero che turbinava di sesso di amore di quadri del ‘400 e poesie biascicate fra un bicchiere e l’altro –; al tavolo a fianco, una sorta di Mezzabotta sorrideva pacato mentre portava elegantemente alla bocca una tagliatella al ragù di lepre, e la sua ragazza più giovane di venti anni almeno, un po’ svogliata, leggeva un libro in francese; dalla cattedrale, di tanto in tanto, giungevano gli echi dei botti della festa del santo patrono.
Poi una sgommata, che attirò forse a se l’ira del Genius loci petrarchesco. Flash di macchine fotografiche. Tanta gente intorno, vicino, la sentivo, mi passava di fianco, quasi addosso. Un urletto. Forse la piazza se ne accorse, Arezzo se ne accorse e si lasciò andare, come una baldracca che ormai non si trucca neanche più, una puttana che di colpo si accorge di avere tanti anni o secoli e al primo passaggio di una giovincella si fa da parte, si ritira, si nasconde.
Fabrizio Corona apparve così, in questo turbinio di decadenza, a metà fra l’antipasto e il primo, subito prima del brunello e subito dopo l’ormai noto chianti. La maglietta bianca aderente, per esaltare il disgustoso turgido convenzionale muscoletto, i tatuaggi tanti e brutti e neri, la cazzo di espressione strafottente. Passò davanti a me aspettandosi, non so, un cenno, un riconoscimento, un biasimo, insomma, una cazzo di reazione, non da me magari, dal mio tavolo, dal tavolo accanto, dalla ragazza di Mezzabotta, eppure niente, da noi niente. Così si riversò su un gruppo di ragazzotti male usciti, poi si gettò fra le braccia dell’oste, dello stesso affabile oste che poco prima mi aveva porto i miei crostini toscani ai fegatini e quelli semplici all’olio, e un assaggio di pappa al pomodoro e uno di panzanella (alla faccia della cazzo di dieta anti-carboidrati), e lui lo accoglie, lo coccola, gli dà un bel tavolo, non il migliore, non il peggiore, un bel tavolo, in vista, non troppo, se vuoi vederlo devi entrare e magari consumare. Non so se il pusillanime stronzo Corona percepisca qualcosa in denaro, ma se ben avesse solo un bicchiere di vino in cambio della sua faccetta sporca, sarebbe un turpe mercimonio. È basso e banale e ha una voce molle e disonesta, l’ho sentita a lungo, oh se l’ho sentita dal mio tavolo, per tutta la sera, o per meglio dire per tutti e venti i minuti prima di scappare dal luogo infettato. Parlò di cose inutili, non di cose scandalose né di cose morbose, parlò di una Carla e di un Jo, ombre su cui i ragazzotti di cui sopra proiettavano profili di personaggi famosi attingendo dal loro demoniaco archivio di personaggi da copertina.
Io mi chiedo ancora cosa centri lui con la mia Toscana, coi miei ricordi d’amore e di sesso e di vino, col mio umanesimo spocchioso e arrogante. Non so, sarà il mio snobismo fuori luogo, sarà la consueta voglia di darsi un tono, per forza, su tutti e contro tutto. Ma proprio, cazzo, fra i tanti personaggi un po’ famosi, lui. Non Umberto Eco, Luciano de Crescenzo, Corrado Guzzanti. Lui. A infettare questo piccolo, personalissimo, superbo angolo di spazio-tempo.

giovedì 5 agosto 2010

Iudicium - "Sono all'osso" (Pan del Diavolo)


Ponte o non ponte, La Tempesta (alias Toffolo & company) stavolta ha addirittura attraversato lo stretto, per la sua folle e personalissima crociata in difesa del rock targato Italia. Siculi sono infatti Pietro Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo, in arte Il Pan del Diavolo, che con il loro “Sono all’osso” si schierano fra le fila di Tre Allegri Ragazzi Morti, Luci della Centrale Elettrica, Zen Circus e compagnia bella.
Il disco, sulla scia dell’EP d’esordio, suona grasso e genuino, diretto ed esplosivo, penalizzato solo da una produzione un po’ troppo raffinata: ma spacca lo stesso, e lo fa solo con un paio di chitarre acustiche, una grancassa, e un piglio vagamente punk à la Violent Femmes.
Si comincia col blues-country-punk-vattelapesca di “Farà cadere lei”, in bilico fra voci urlanti e stacchi da delta del Mississipi (o è qualcosa di Siculo…?); “Pertanto”, invece, è un più scanzonato episodio di schizofrenia (“voglio fare tutto, ma tutto non si può fare [...], quindi faccio quello che mi pare”) in puro stile iu-es-ei; meravigliosa e grottesca, “Il centauro” ci porta in un ambiente (periferia? Squallida provincia?), fra il goliardico e l’osceno, immerso in un blues lento e cadenzato; con “Università”, ossia il disilluso canto di un giovane studente come tanti (e come me), si vira verso un folk più italico e personale, senza perdere in impatto e orecchiabilità; poi c’è “Blu Laguna”, ancora un pezzo al fulmicotone, fra il rock’n’roll dei primi Hormonauts e il sempiterno Buscaglione, ricco di suggestioni elvisiane e con un taglio narrativo che ricorda il Paolo Conte di “Boogie”; “Bomba nel cuore” vede la collaborazione degli Zen Circus, che con il loro apporto elettrico ci regalano un incendiario e brevissimo saggio di punk nostrano; il ritmo rallenta, e con “il boom” il duo palermitano si addentra ancora una volta nel country desertico americano, tentando un songwriting meno dirompente ma altrettanto interessante; testo bellissimo per “Il mistero dello specchio rotto” (“sarebbe stata pure l’ora, sotto la gonna ci si consola”), che riprende un po’ velocità ma soprattutto scopre un originale ritmo folk tutto meridionale; “sono all’osso” tradisce l’assioma secondo cui la title-track deve essere radiofonica o quantomeno prevedibile: accenni noise e testo irruento fanno di questo brano uno dei più originali dell’album; “Africa” convince soprattutto per il testo più disteso e malinconico; “Ciriaco” non spicca per originalità musicale, ma il testo ha alcune belle trovate (“voglio essere ricordato come cattivo”); “Scarpette a punta” riscopre il lato fiabesco della tradizione popolare, accompagnato da un inquieto e allo stesso tempo conciliante arpeggio di chitarra.
Insomma, l’ispirazione è tanta e sfaccettata. Ce n’è per tutti i gusti, ed è questa la carta vincente di Il Pan del Diavolo; certo, il livello non è sempre lo stesso, e forse una diversa distribuzione dei pezzi avrebbe reso il tutto più equilibrato.
Ma, tutto sommato, in culo all’equilibrio! I primi sei pezzi sono una manganellata fra le costole, da ascoltare tutti d’un fiato, poco importa del resto. È impressionante come due chitarre e una grancassa possano più di crash e big muff vari, quando sono in mani genuine e smaliziate come quelli di Il Pan del Diavolo.

lunedì 2 agosto 2010

Meditatio aestatis - II

Le località di mare, specialmente quelle liguri, specialmente quelle di ponente. Ci sarebbe da mettersi dall'alto a scrutarle, studiarle, scoprirne le dinamiche, le idiozie. E invece mi ci infilo da straniero, con due compari.
Le aspettative: grandi.
L'esito: enorme.
La spiaggia pubblica è fantastica, uno spicchio di entropia ghiaiosa e accattivante. M'infilo la mano in tasca e tiro fuori una moneta da due euro: il Dante incisovi sopra mi lancia uno sguardo di biasimo. Ridacchio e la lancio al barista, che ci allunga poco dopo i nostri caffè. Caldi. Come il caldo di fuori. Più del caldo di fuori. Ma si butta giù. Bè, fa schifo il caffè in questo bar. Forse nell'intero lungomare.
Ci dirigiamo verso uno spazietto di spiaggia libera, stendiamo alla benemeglio i nostri teli (il mio è corto, molto corto, mezzo stinco esce fuori e si griglia sulla ghiaia nera); lontani da ogni essere di sesso femminile con una minima parvenza di piacenza.
Mi tolgo la maglietta da nerd che ritrae una fantastica battaglia fra ninja e pirati, la arrotolo e la metto nella sacca. Il mio flaccidume pallido e smagliato è in mostra, ora. Inforco i ray-ban e mi accascio sul telo (corto). Leggo qualche pagina dell'Auerbach, forse una trentina. Forse mi addormento.
La pelle arde, poi s'impatina di umori. Magari metto la crema. Protezione to-ta-lis-si-ma. Rimarrò pallido, questo è certo, ma meglio pallido che rubicondo.
Coi due soci si parla di tante cose, tutte afferenti la sfera sessuale e tutte riguardanti le donne e tutte riguardanti le parti più sconce delle donne. Ci si lamenta, siamo lontani da ogni femmina abbordabile. Abbordabile, poi... Che "vorremmo" abbordare. Mah, uno di noi è figo. L'altro è normale. L'altro sono io. Si finisce a ridere e parlare di Giovanni Lindo Ferretti, Neruda, Umberto Smaila, Scatman, Moltheni, Cristiano Godano, Guido Gozzano. Rovisto nel cervelletto, non mi ricordo l'inizio di "il limine" di Montale. Cazzo cazzo cazzo cazzo.
Scopriamo poi, mentre i miei soci divorano dei/delle Fugassin (cose strane, buone, dolci, fritte) e io mi consolo col mio yogurt magro (che forse per contrappasso spero renda magro me, mangiandolo), che nei prossimi giorni "LA POESIA TORNA DI MODA". Sgraniamo gli occhi. Le donne saranno ai nostri piedi. Ma come cazzo fa "in limine"...?! Oggi mi servirà, se la poesia torna di moda. Le donne amano la moda. Noi siamo poeti. La poesia è di moda. Le donne amano i poeti. Le donne ci amano.
Si, ok, Aristotele è da ripassare.
E pure Montale, cazzo. C'era qualcosa sulle "gazzare", qualcosa sul "pomario". Mi sovvengono le lezioni sconclusionate e formidabili del prof. Ficara, su Montale, gli "ossi di seppia", "in limine". Ma non l'incipit, diavolacci neri.
Mi gratto il capo incrostato di salsedine, mentre ascolto i due. Sono d'accordo con loro, la poesia può funzionare. Io c'ho sempre provato. Cioè, ci ho provato una volta e ha funzionato. 100%. Colpo sicuro.
E allora ci buttiamo per le vie di Pietra Ligure mentre ad alta voce declamiamo i testi dei CSI e dei Marlene Kuntz. Dopo diversi metri ci accasciamo su una panchina sconsolati e piegati dalle risate. Ci innamoriamo di una negoziante. Ci andiamo a sciacquare a una fontana e poi a cambiare. Mangiamo una pizza OSCENA e prendiamo tre birre da asporto da 66 cl.
Ci panchiniamo di nuovo e parliamo di Fini, Berlusconi, Berlinguer, Fanfani, Peppone, Gramsci, Ratzinger, Calvino, Calvino l'altro, i quaccheri, Clinton, parliamo di me e del mio disinteresse per il bene comune e per la res publica, che di pubblico ha solo le grane.
Finisce la birra, magari si va al pub. Vecchi amici del mio socio, miei buoni e graditi conoscenti, un paio di volti nuovi. Il pub si chiama qualcosa tipo "lucertola" o "geko" o robe viscidose che camminano però. Intorno sparuti quindicenni orribili e tamarri. Poi c'è questo tipo, al nostro tavolo. I baffi, lo sguardo profondo e smarrito, la voce esile e infinita. Inizia a parlarmi di cose strane, egizi, fermentazione della birra, metempsicosi, cunicoli sotterranei di Torino, sigari. Lo ascolto ammirato e spaesato, mentre la mia birra piccola bionda non arriva.
Poi un'improponibile proposta di finire l'improponibile serata su un'improponibile spiaggia fumando improponibili canne e cantando improponibili canzoni di Ligabue. Rifiutiamo e ci dirigiamo alla macchina. Si va ad Alassio.
Che merda.
Non c'è nessuno.
I pochi che ci sono fanno schifo.
Le donne non amano la poesia nemmeno qui.
Certo, se recitassi loro in "in limine" (...vento, pomario, gazzare...). Ma in testa non arriva.
Solo un ragazzo forse slavo che ci chiede in inglese dove comprare preservativi qui alle due di notte. E se la fa con una slava bella e mora. Bravo! Massima stima. Domani saranno ad Amsterdam, mi dice.
Noi a Pietra Ligure.
La serata finisce con noi sul moletto, piedi verso l'acqua, patetici, poetici, poietici. Ascoltiamo le pisciate del mare e dei ragazzini ubriachi. Ci dondoliamo un po' sul sottile filo che divide l'essere patetici dall'essere Eletti.
E ci rimettiamo in macchina, tediati, mentre ascoltiamo gruppi noise californiani.
Ci ferma la polizia.
Gentilissima e simpatica! L'agente ci chiede i documenti, facciamo due chiacchiere, ci consiglia di accelerare lungo la via perchè più avanti ha appena lasciato andare una macchina con quattro ragazze single (e non singles, come ormai dovreste sapere).
Ce la ridiamo un po' e ripartiamo, ma non acceleriamo. La macchina era rosa, le donne con la macchina rosa non amano la poesia, anche se è di moda, non amano i poeti e forse nemmeno "in limine".
Ci infiliamo fra le colline. Ci infrattiamo con la macchina in un meandro fra le rocce. un luogo che avrei potuto usare per portarci una ragazza, una volta. E ora siamo noi tre poeti a lamentarci perchè stiamo stretti e fa freddo. Dormiamo tre ore.
Alle 7 si riscende in paese, ci si lava alla fontana della piazza, i denti, la faccia. Ci si fa una doccia sulla spiaggia, con il bagnoschiuma preso in un hotel cinque o sei anni fa. Si dorme tanto, sui teli, fino a quando il sole si fa bollente.
Poi si fa il bagno. Anche il giorno prima l'avevamo fatto, chissà perchè non l'ho detto prima. L'acqua è calda e buona e non è lurida come nei miei incubi di villeggiatura in Liguria, a ponente, a Pietra Ligure.
Quattro bei pezzi di ragazza prendono il sole, una pure in top-less. Si ride fra noi, si sogna fra noi un approccio fantascentifico ma molto poetico. Chissà se sanno che la poesia è tornata di moda. Ah, dimenticavo. "La poesia è tornata di moda" è il nome di una manifestazione orribile in cui si fanno sfilate di MODA con abiti POETICI, che dovrebbe svolgersi qui in questi giorni.
Si.
Fa schifo.
Però era tanto bella l'idea.
Saremmo stati irresistibili.
Scuoto il capo sorridendo, la pelle secca e riarsa. Mi butto sul telo fissando il cielo. Azzuro, grande, patetico pure lui. E rinfrancante.
Eccola, si. E' lei, finalmente. Mi torna in mente.

Godi se il vento ch' entra nel pomario
vi rimena l' ondata della vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non era, ma reliquario.
Il frullo che tu senti non è un volo,
ma il commuoversi dell' eterno grembo;
vedi che si trasforma questo lembo
di terra solitario in un crogiuolo.
Un rovello è di qua dall' erto muro.
Se procedi t' imbatti
tu forse nel fantasma che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati pel giuoco del futuro.
Cerca una maglia rotta nella rete
che ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l' ho pregato, - ora la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine...

(E. Montale - In Limine)


In due ore siamo di nuovo a casa, in città, soli, ognuno per se, più arrossati, più divertiti, più sconsolati. Io più spaventato. Poeti.