giovedì 29 dicembre 2011

Delirium Hibernum novum - Gente che non si fa sentire


Sono ventuno giorni che non scrivo nè qui nè sui vostri blog! Vi manco, lo so, vi manco. Ma perdonatemi, dovevo mangiare tantissimo e dovevo essere coccolato dalla nonna che non vedo mai, e dovevo studiare (devo studiare) e, soprattutto, dovevo darmi da fare per qualcosa di grosso... Che riguarda tangenzialmente anche Cawarfidae... Sarete i primi a saperlo. Bè, di grosso... Di appagante per il mio smisurato ego, piuttosto. Ho abusato degli odiati puntiti di sospensione, basta. Ne parlai già qualche tempo fa, via puntini di sospensione.
E vi regalo un po' di Schiele, che oggi mi è tornato alla mente in più circostanze.

giovedì 8 dicembre 2011

Meditatio de Autumno novo VIII - Condono uterino


Oggi si festeggia una cosa un po’ astrusa, su cui però bisogna fare un po’ di chiarezza: l’immacolata concezione. Molti pensano che voglia dire che la cara Mary abbia concepito il Cristo da vergine. Ma no, quello è un altro dogma, molto più antico, addirittura scritturale. L’immacolata concezione invece sancisce che la Madonna sia stata preservata dal peccato originale fin da quando era un aggraziato, giudaico feto.
Una precisazione indispensabile per festeggiare degnamente questa gaia festa, non credete? La cosa divertente è che è un dogma recentissimo, del 1854.
Cioè, è tipo un condono. Non si sapeva prima che la Madonna fosse immune dal peccato originale, poi di colpo, millenovecento anni dopo, le viene concesso. Secondo me se si va a leggere un po’ fra le righe, in questo dogma è anche spiegato perché la Chiesa non paga l’Ici. Invece mio papà, che è dell’ormai celebre leva del ’52, non andrà mai in pensione.
Si, però adesso non iniziate a mettere commenti tipo “è indecente che la Chiesa non paghi”, “basta con questi privilegi”, “blablabla”, non ce ne frega niente, lo sappiamo già. Invece ditemi pure cosa ne pensate dell’immacolata concezione. Quello sì che è un privilegio. Bella storia essere immuni già prima di nascere, hai capito ‘sta Maria.
Io direi che questo dogma rientra pienamente nella categoria "cose post-medievali di cui avremmo potuto benissimo fare a meno"

domenica 4 dicembre 2011

Narratio - "Si vede che su Rai 3 non fanno più gli speciali di Super Quark, di sabato sera"


Una mezzoretta fa ero davanti a un disegno sull’asfalto fatto col gessetto, mezzo cancellato. Il gioco della campana. Roba che manco più i nostri genitori. Stretto nella mia giacca da fallito, dopo essermi sincerato che nessuno mi stesse guardando, ho fatto due o tre saltelli su quei quadrati. Il gioco della campana in un angolo deserto e sperduto di un paese di ventinovemilaottocentosettantuno abitanti (secondo il dato Istat del 31 dicembre 2010, fedelmente riportato da Wikipedia). Come fossi finito lì manco me lo ricordo più. Camminare, un po’ a caso, per schiarirsi le idee. Che idee poi… Ancora a pensare stai, Enrico? Si, ti riesce bene, questo l’abbiamo capito. Ma mentre fai quei due timidi saltelli su un piede, cosa stai ancora lì a pensare, che sei ridicolo? Mi tatuerei una bella, gigantesca Elle sulla fronte. Una persona inconcludente. Inconcludente e inconcretizzante. Che non si dice in italiano. Oddio, ci sono campi della vita in cui credo di essere piuttosto determinato e “concludente”, per esempio lo studio o la musica. Altri campi in cui sono un disastro. E la colpa, caro Enrico, è sempre la tua. Lo è sempre stata, ogni diavolo di momento. Inetto. Roba che Zeno e Ulrich mi fanno una pippa. Stasera ho conosciuto la piccola comunità di ventenni kenioti del suddetto paese di ventinovemilaottocentosettantuno abitanti. Gente interessante. Poi ho riso, perché conoscevano tutti mio cugino, che è una sagoma. Ma Enrico, è questo quello che vuoi raccontare di stasera? Davvero…? Dopo aver giocato da solo alla campana ho visto due hipster su una panchina. Mi hanno fatto tenerezza e un po’ pena perché non c’è evidentemente posto per loro in questa cittadina. Scappate, andate a Londra o a New York, non rimanete in questi posti da ventinovemilaottocentosettantuno abitanti. Poi vabbè, mi stanno pure sul cazzo gli hipster, che andassero a fanculo. Enrico… Sei patetico. Te la prendi con gli altri. L’abbiamo appurato, la colpa è tua, tua culpa. Forse non sei pronto, non ancora, e questa è tutta una montatura. O stai camuffando tutto dietro questa maschera gioiosa da fallito. Che sarà patetica, ma almeno ha uno statuto letterario ed è riconosciuta dalla società. E non è quel coacervo di “cose” opposte che ti frullano per la testa. Poi ti metti in macchina, ti spari nelle orecchia l’incompiuta di Schubert e via a casa a scribacchiare su un computer ‘ste due cazzate. Freud. Al liceo, la prima volta che lo studiai, non mi convinse su un punto. La pulsione di morte. Come fa una persona ad agire contro i suoi istinti, contro i suoi desideri, contro qualcosa che ovviamente potrebbe farla stare meglio? Ero infarcito di Nietzsche e Spinoza, pensavo che l’uomo vedesse sempre al proprio pro. No, Enrico non fa così, non sempre, Enrico fa anche il contrario di quello che vuole, senza saperne il perché, senza un motivo, forse solo per darsi delle scuse, per camuffare la propria debolezza o impreparazione. Ma no, tranquillo, non sei ridicolo, perché tanto è un gioco letterario fare finta di scrivere il proprio diario, che in realtà è fittizio, ma la finzione è fintamente finta e nasconde un fondo di verità, che però a ben vedere è solo finzione realistica e paradigmatica, che forse alla fine qualcosa di vero c’ha. E dato che sei includente, non darai manco un finale a questo post.

sabato 3 dicembre 2011

Meditatio de Autumno novo VII - inverno/inferno


Le temibili legioni romane erano solite riposarsi, in inverno. Contavano le campagne militari non in anni, ma in estati (Tacito, per esempio, ricorda che Vespasianus fortuna famaque et egregiis ministris intra duas aestates cuncta camporum omnisque praeter Hierosolyma urbis victore exercitu tenebat), e in latino il denomilane hiĕmo, “svernare”, è un termine tecnico del lessico militare.

Ora, non so se siano cambiati i tempi o se, come al solito, sono io che sono un po’ sfasato. Fatto sta che l’inverno che inizierà fra un paio di settimane si prospetta tutt’altro che pacifico. Innanzitutto per la sconsiderata idea di finire gli esami entro febbraio. Poi per i salti mortali che prevedibilmente farò fra Alba, Milano e Torino. Poi perché ho finito i soldi. Poi perché la tesi è ancora lì in un cassettino. Poi per mille altri casini piuttosto consueti.

Niente discorsi astrusi e finto-filosofici stavolta.

Vabbè, partire citando Tacito non è proprio una cosa normale, lo so.
Ma ammettere di avere qualche problema è il primo passo per guarire, no?

lunedì 28 novembre 2011

Iudicium - Truffaut (1962-1968)



“È meglio citare Truffaut” si diceva, dunque in assenza temporanea di furor scribendi continuerò la mia rassegna. Con una piccola deroga stavolta, ché non sono riuscito a procurarmi in francese, per ora, La mariée était en noir (La sposa in nero, 1967). Ne parlerò non appena lo vedrò.
Antoine et Colette (Antoine e Colette, 1962) è uno dei cinque episodi che compongono il film collettivo L'amour à vingt ans (L’amore a vent’anni, 1962); con questo cortometraggio Truffaut torna sul personaggio di Antoine Doinel (protagonista di Les quatre-cents coups), ora diciassettenne: il giovane vive da solo, si guadagna da vivere lavorando e, per la prima volta nella sua vita, si innamora. La brevità del film non consente particolari giudizi sulla regia, se non l’uso interessantissimo della voce narrante, già sperimentato in Jules et Jim (non a caso, forse, la voce narrante in Antoine et Colette è proprio quella di Henri Serre, l’attore che interpreta Jim). Il punto di forza, come sempre, è il ricorso all’emozione, all’identificazione; il tutto passa attraverso l’esplorazione interiore di un personaggio a cui ci si affeziona, che si conosce via via, che diventa quasi un amico o un alter-ego.
La peau douce (La calda amante, 1964) ci catapulta in un immaginario molto lontano da quelli fin qui visti. Parrebbe un classico dramma borghese, un uomo di mezza età che si innamora di una giovane donna e porta avanti con lei una relazione adulterina. Come sempre però, Truffaut riesce a tenersi lontano dai cliché del genere, sia attraverso il suo linguaggio registico (attenzione ai dettagli, gestione dei tempi e dei campi) sia per quanto riguarda i contenuti: oltre al finale decisamente inaspettato, qui Truffaut ribalta completamente lo spirito di Jules e Jim, libero e libertino, mostrando quanto di pratico, abitudinario, contingente, assolutamente non poetico ci sia in un amore, e come questo amore non possa che esistere in una forma socialmente accettata e aperta. E poi c’è la bellissima Françoise Dorléac, che da sola merita la pellicola (leggetevi un po’ qui chi è).
Fahrenheit 451 (1966), tratto dal conosciutissimo romanzo di Bradbury (uno di quelli che ti fanno sempre leggere i primi anni del liceo), rivede la comparsa di Oskar Werner (già visto nei panni di Jules), che interpreta Montag, agente della squadra di pompieri incaricata, in un futuro distopico ma nemmeno così tanto, di incendiare tutti i libri al mondo. Il periodo in cui è stato girato il film è quello che è, e qui più che altrove possiamo vedere il nostro Truffaut sessantottino. Sulla trama non mi dilungo, è cosa nota; interessante è invece la scelta di Truffaut di dare un finale piuttosto diverso rispetto al libro, non tanto nella forma (anzi, ancora una volta dimostra gran fedeltà rispetto alle sue fonti), quanto nel messaggio di fondo. Vedrete e capirete.
Baisers volés (Baci rubati, 1968) è il terzo capitolo della saga di Antoine Doinel; ormai ultraventenne, il giovane esplora il mondo femminile e relazionale, cambia più volte lavoro, compagnie, gusti, in un continui altalenare fra prese di coscienza della maturità e necessità di imporsi sulla propria vita, che ormai diventa “seria”. La consueta leggerezza di Truffaut è qui operante all’ennesima potenza, variando dalla nostalgia, alla malinconia, alle piccole gioie, alle preoccupazioni quotidiane. A essere sinceri, la prima oretta di film è piuttosto deludente perché, a parte l’emozione iniziale nel rivedere il volto ormai noto/personale di Antoine, la noia ha il sopravvento. Ma nell’ultima mezz’ora… Wow. Prima col meraviglioso personaggio di Fabienne Tabard, la donna-visione matura che entra di prepotenza nella vita di Antoine con un folata di poesia, poi con le tre scene finali, una più toccante dell’altra (registicamente ed emotivamente), Truffaut gioca le sue carte migliori regalando una delle conclusioni forse più commoventi della storia del cinema. Certo, un gran ruolo lo giocano la colonna sonora (Charles Trenet, Que reste-t-il de nos amours?, che potete ascoltare qui sopra) e le vedute di Montmartre…

lunedì 21 novembre 2011

Alius Carmen - "Versi a Dina", Camillo Sbarbaro

La trama delle lucciole ricordi
Sul mar di Nervi, mia dolcezza prima?
(Trasognato paese dove fui
ieri e che già oggi non riconosce il cuore).

Forse. Ma il gesto che ti incise dentro,
io non lo ricordo; e stillano in me dolci
parole che non sai d’aver dette.

Estrema delusione degli amanti!
invano mescolarono le vite
s’anche il bene superstite, i ricordi,
son mani che giungono a toccarsi.

Ognuno resta con la sua perduta
Felicità, un po’ stupito e solo,
pel mondo vuoto di significato.

Miele segreto di che s’alimenta;
fin che sino il ricordo ne consuma
e tutto è come se non fosse stato.

Oh come poca cosa quel che fu
da quello che non fu divide!
Meno
che la scia della nave acqua da acqua.

Saranno state
le lucciole di Nervi, le cicale
e la casa sul mare di Loano,
e tutta la mia poca gioia – e tu –
fin che mi strazi questo ricordare.


(Camillo Sbarbaro, Versi a Dina, 1931)

sabato 19 novembre 2011

Meditatio de Autumno novo VI - Aria di latte


Qualche mattina fa, sceso dal cinquantotto, immersomi in un’aria di latte – questo sembrava la nebbia – vidi un corvo con una ghianda in bocca. Era su un lampione, in cima, che cercava di rompere il guscio col becco. Poi fece un balzetto in avanti, buttando la ghianda giù, sul marciapiede. Lo fece due volte. È così che capii definitivamente l’inconsistenza e l’inutilità della specie umana, il fatto che potrebbe esserci o non esserci e niente, neanche un piccolo atomo in questo universo, in questi universi, la rimpiangerebbe.
E non è un discorso etico, non siamo buoni o cattivi abitanti della terra, semplicemente siamo superflui.
Costruiamo cose, proviamo sentimenti, studiamo, scriviamo, scriviamo su un blog, scriviamo su un blog che siamo esseri inutili, e tutto questo che senso ha nell’economia dell’esistenza?
E non è un discorso teologico, che ci sia o meno una retribuzione per le nostre azioni, che ci sia un creatore/giudice/arbitro/guardalinee/teleologo, cosa apporterebbe questo? Saremmo o no, comunque, corpuscoli che vagano e si agglomerano e si disgregano?
Proviamo piacere per alcune cose, la lettura, il sesso, il cibo, il divertimento, l’arte, l’ozio, la pace. Cose che iniziano e finiscono, e se non ci sono è tutto brutto, e se ci sono ci illudono che potrebbero sempre esserci.
E non è un discorso estetico, perché non è vero che “non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace” e non è vero che è “meglio aver amato e perso che non aver mai amato”; questi sono tutti protocolli scatologici a tempo limitato.
E men che meno è un discorso esistenziale, perché io ne faccio mai, di discorsi esistenziali.
È che non avevo ancora preso il caffè, quella mattina.

martedì 15 novembre 2011

Iudicium - Truffaut (1959-1961)



Vi avevo promesso un consiglio cinematografico. In realtà avrei voluto fare una dettagliata recensione dei primi tre film di Truffaut. Purtroppo la pigrizia gioca brutti scherzi, quindi eccomi qui a scrivervi giusto due cosine a riguardo. In apertura, ascoltatevi la canzone qui sopra, è di un (da me amatissimo) gruppo di Torino, i Verlaine. Qui la loro pagina su Rockit, dove potete ascoltare tutto il loro album. Ebbene, proprio l'ascolto del suddetto pezzo mi ha fatto venire voglia di affrontare, in ordine cronologico e in lingua ufficiale, tutta la filmografia di Truffaut. E, di tanto in tanto, vi scriverò come procede l'impresa.
Il nome di Truffaut è legato alla Nouvelle Vague, ma è piuttosto lontano dagli sperimentalismi e dall'originalità, per esempio, di un Godard. Truffat è soprattutto un gran narratore, che sa scrivere storie e costruire personaggi (che in un caso travalicano addirittura i limiti del singolo film), ne narra disgrazie e gioie (soprattutto le prime, sia chiaro, e lo ringraziamo per questo), ne eviscera i caratteri.
Les quatre-cents coups (I quattrocento colpi, 1959) ci porta nel mondo dell'infanzia, che poi è un po' il mondo della poesia, di quella poesia della piccole cose, dei ricordi, delle esperienze. Un'infanzia non facile, conflittuale, che ci mette da subito in contrasto col mondo, coi genitori, con le regole stesse del vivere civile; il piccolo Antoine vorrebbe godersi la vita, per quel poco che può, ma si scontra con la realtà, che impone, reprime, ordina. Ma questo tema, che un altro registra avrebbe trattato con pesantezza, amarezza e angoscia, viene affrontato da Truffaut con una leggerezza, un'evanescenza, un'innocenza davvero poetica (nel senso più prosaico - scusate il gioco di parole - del termine), quasi a voler dire che è con gli occhi di Antoine, del bambino, che bisogna guardare alla vita, che bisogna sfidare il mondo e la società, non con la malizia e col senso di sconfitta degli adulti. Un film davvero delicato, nonostante, nel finale, le tematiche siano tutt'altro che facili e leggere, a metà strada fra fantasia e biografia, una biografia forse che appartiene un po' a tutti, almeno a livello spirituale.
Tirez sur le pianiste (Tirate sul pianista, 1960) è forse il film più particolare di questo primo periodo. Formalmente è un noir, si rifà palesemente al cinema americano di qualche decennio prima, ma con una gran carica di originalità e personalità. Charlie (interpretato da Charles Aznavour) fa il pianista in un locale e, tirato dentro dai suoi fratelli ladri, finisce in una faccenda di soldi, pallottole e rapimenti. Fin qui tutto normale, ma la novità di Truffaut sta nell'inserire, all'interno del classicissimo plot, una serie di elementi piuttosto decentrati: lunghi flashback sulla carriera da musicista di Charlie e sul suo primo matrimonio, lunghi monologhi su come approcciare la bella di turno, dialoghi surreali fra gangster dal cuore tenero (come Tarantino, trent'anni prima di Tarantino), intermezzi musicali completamente gratuiti... Insomma, un gioco cinematografico, che per un istante lascia da parte il piglio biografico ed esistenziale, ma non abbandona la poetica delle piccole cose e dei sentimenti.
Jules e Jim (1961) è ambientato nei primi del '900: è la storia di una grande amicizia, fra i due artisti-scrittori-bohemienne Jules e Jim, e del loro rapporto con Catherine (interpretata dalla bellissima J. Moreau), donna emancipata e decisamente "anni '60". Una triangolo amoroso, quindi, che all'epoca fece scandalo, ma che non può non dirsi assolutamente romantico e sentito, vitale, mai piatto e monotono, ma passionale, intenso, altalenante, in una parola, vero. Tre persone che, un secolo fa (all'epoca mezzo secolo fa), decidono di vivere secondo il corpo e non secondo le regole, seguendo l'arte e non la società. Fantastico il montaggio, fatto di vecchi filmati di repertorio, scene spesso giustapposte o parallele, tutto unito da una voce narrante e un'onnipresente attenzione formale alle inquadrature, soprattutto quelle ai piccoli gesti e oggetti quotidiani. Questi ultimi due elementi, in particolare, danno al prodotto un'aria fiabesca, trasognata, romantica, la stessa che, molti anni dopo, ritroviamo in Le fabuleux destin d'Amélie Poulain (Il favoloso mondo di Amélie, 2001) di Jeunet, che deve davvero tanto a Jules e Jim.
Guardare per credere.

venerdì 11 novembre 2011

Meditatio de Autumno novo V - V per X uguale L! Cinquata post, cinquanta iscritti, tanto ammmmore.

[Solo per voi aficionados in esclusiva uno scatto delle
ormai celebri giostre sotto la finestra della mia stanza.
La foto risale alla settimana scorsa, quindi prima del mio
attacco di legiostresonochiusemacisonoancoraicamionfobia,
quello di cui parlo nell'ultimo post]

Cinquantesimo post
. Va scritto molto velocemente, perché al momento ho cinquanta iscritti e sarebbe carino fare una cosa a tema, prima che il fatidico cinquantunesimo si iscriva. Fiftififti. Potrei fare un bel pippone sul fatto che siete tutti fighi voi che mi seguite, che quando avevo iniziato non speravo minimamente che sarei arrivato dove sono, che non mi merito tutto questo. Ma no, in realtà il mio piano di conquista del mondo è solo all’inizio, fra poco il mondo si accorgerà della mia grandezza e questo blog diventerà il crocevia della cultura occidentale.

Deliri fallocratici a parte, è interessante vedere come ho cominciato qui. In realtà scrivo su blog dal 2004, quando ero un giovine virgulto di diciassette anni e scrivevo cose ridicole più o meno come quelle che scrivevo oggi. In un raptus di modernismo (maledetto) ho cancellato tutto l’anno scorso e ho ricominciato qui su Cawarfidae, come Cawarfidae.

Il che è buffo. Perché fino ad allora mi ero sempre chiamato col mio nome e cognome, mi ero sempre presentato con la mia foto e tutto il resto. Quello che è cambiato da allora è che ora ci sono altri canali per “essere me stesso”, tipo i social network (ok, ok, non iniziate con le solite cose del tipo “ma per essere te stesso non devi andare su internet e cose così”, non intendo dire questo e non intendo dire che lì ho la mia vita. Anzi, ho un rapporto incredibilmente conflittuale con facebook, come dissi qui. Voglio solo dire che qui più che di me stesso parlo dell’immagine letteraria di me, del mio ruolo sociale di autore/personaggio). Per inciso, nella vita di tutti i giorni non scrivo cose in latino.

Vabbè.

Qualche volta si.Ma per scherzo.

Più o meno.

Va bene, ho cazzeggiato più del consentito, questo è uno dei primi miei post per nulla meditato e si vede. Ma mi perdonerete perché mi volete bene e perché sono bello e simpatico. Ci vediamo al cinquantunesimo iscritto e al cinquantunesimo post (che, udite udite, sarà un consiglio cinematografico).

martedì 8 novembre 2011

Meditatio de Autumno novo IV - Cawarfidaefobia

Fra alluvioni, corse matte e disperatissime per prendere treni e andare alle prove del gruppo, manoscritti medievali riprodotti in microfilm orribili e plurilinguismo obbligato dalle 2434654976 nazionalità presenti qui in collegio, la vita prosegue.
No, lo dico perché non è così scontato come sembrerebbe, il fatto che la vita prosegua.
Succedono cose strane, cose alla X-Files o alla Fringe (che è quella roba di cui parlai tempo addietro qui). Il segreto è sempre lo stesso: ignorare e obliarsi.
Ma veniamo al nostro…
Elenco delle cose straneeeee!

(No, non c’è un jingle di sottofondo, non fate lo sforzo di immaginarvelo [e no, non è una nuova rubrica, quelle che ci sono già mi mettono abbastanza in imbarazzo da sole])

  1. C'è una ragazza spagnola nel nostro bagno che sta piangendo perchè una sua "amica" le ha spruzzato uno spray al peperoncino in faccia e c'è un ragazzo di colore sudafricano che la sta aiutando a tamponarsi gli occhi con uno straccio intinto nel latte (probabile rito Zulu, nel dubbio inizio a chiamare Bernardo Guy).
  2. Nelle statistiche del mio blog leggo che la chiave di ricerca che porta più gente qui - a parte l'ovvia "Cawarfidae" - è la parola "Darwin" (ovviamente perchè lo cito ogni trepperdue), così come l'articolo più letto è proprio questo. La cosa mi inorgoglisce.
  3. Inizio ad avere paura, perchè le giostre sotto casa mia (quelle di cui si parla qui) sono state smontate ormai da una settimana, ma i camper e i camion sono ancora accampati qui sotto. Non so perchè la cosa dovrebbe farmi paura, ma tant'è. C'è chi ha l'aracnofobia, io ho la legiostresonochiusemacisonoancoraicamionfobia.
  4. In questo post ontinuo a linkare cose che non interessano a nessuno, verso cose che non sono mai interessate a nessuno; questo è un chiaro segnale di cedimento metale. Ergo, abbiate paura di me. Cawarfidaefobia.
  5. Sto diventando razzista, profondamente razzista. Ma a ben vedere, sto solo diventando misantropo, perchè semplicemente odio qualsiasi sotto-insieme del genere umano, a partire dalle razze, per passare alle religioni, i generi, le parentele, le materie di studio, la faccia, in poche parole: l'essere altro da me. Che, da quello che dicono ultimente, è poi il ritratto di 6.999.999.999 esseri umani.
  6. Perchè la donna della mia vita è sempre sul metrò che va nella direzione opposta alla mia e le porte si chiudono nel momento stesso in cui la vedo per la prima volta e mi innamoro perdutamente di lei? No, sul serio, sarà capitato cinque volte nell'ultima settimana.
  7. Questa lista di stramberie a ben leggere è la cosa più malata di tutte.
Come da copione, alla fine il problema sono io, il fatto che sia a un passo diverso rispetto al mondo che c'è intorno e probabilmente anche rispetto ad altre mie personalità.
Per fortuna fa molto artista maledetto questa roba del fare lo strano. Giochiamocela così, va.

domenica 6 novembre 2011

Altercatio virorum de mulieribus - "Basal Instinct" IV


Giobbe: Ma sei sicuro?
Patronio: Ti ho detto di si, malfidato.
G.: Giuro che se mi metti in imbarazzo davanti a tutti…
P.: Cazzo, sembra che tu non sia mai stato a una festa…
G.: Non a una che prevede appuntamenti al buio e altre cazzate del genere!
P.: Rilassati, amico… Confrontarsi con donne che non conosci e che probabilmente non vedrai mai più in tutta la tua vita aiuta. Non c’è quella patologica paura di rovinare amicizie, ricadere in vecchie storie, fare bella impressione... Insomma, tu sei lì per quello, loro sono lì per quello e amen.
G.: Amen.
P.: Piuttosto… Gli esercizi?
G.: Senti, guarda, voglio essere buono, ho avuto una giornata lunga e difficile, non costringermi a incazzarmi e romperti la faccia, ti imploro. Ok, vengo a ‘sta cazzo di festa per ninfomani. Ok, esco un po’ nonostante sia triste e depresso e solo. Ok, tollero i tuoi discorsi deliranti sulle donne e sul sesso. Ma, porca di una puttana, NON nominare MAI più Kegel.
P.: …Noioso che non sei altro.
G.: Rompicazzo che non sei altro.
P.: Vabbè dai, scusa, scusa, niente più esercizi per il pavimento pelvico, promesso. Che rimanga una cosa fra te e il tuo urologo.
G.: Io non ho un urologo.
P.: Ecco.
G.: Ecco?
P.: Si, ecco.
G.: Ecco cosa?!
P.: Continui a dare prova della tua inettitudine sessuale.
G.: Perché non ho un urologo?!
P.: Perché non hai un urologo, già. Ora, conosci per caso donne che non abbiano un ginecologo di fiducia, che non si facciano visitare ogni tot di tempo, che non si prendano cura delle loro parti intime con perizia e scrupolo?
G.: Ossancorneliopapa…
P.: Si si, continua pure a invocare santi e madonne. Aiuta senz’altro, eh. Di certo più che andare a farsi visitare… Ma tu ti rendi conto di come Q badino a certe cose?! Questa è la chiave del successo! Calcolare i giorni del ciclo, di fertilità, la temperatura basale…!
G.: No. Non puoi aver detto “temperatura basale”. Non sul metrò mentre andiamo a una festa, non sei normale.
P.: Ok, avrei voluto tenermelo per un’altra occasione ma non mi lasci scelta. Giobbe, ti presento il mio caro amico Metodo Ogino-Knaus.
Ogino-Knaus: Molto piacere, Giobbe.
G.: Mi stai davvero presentando un “metodo”?! Ma non dovevamo conoscere ragazze?!
P.: Non essere scortese e presentati, idiota!
O.: Oh, si figuri Patronio… Sono abituato a queste cose… Non è da tutti i giorni parlare con un Metodo.
G.: Si, si, vabbè. Mi arrendo. Ehm, piacere Signor Metodo Ogino-Knaus…
P.: Oh, così si fa. Ebbene, il qui presente Metodo è la prova dei livelli di perizia raggiungibili dalla scienza.
O.: Modestamente…
G.: Mh. E questo cosa ha a che fare con lo scrupolo delle donne nei confronti della loro passera?
O.: Bè, caro Giobbe, innanzitutto non la chiamerei “passera”. Sa, in campo scientifico le metafore spesso creano confusione. Comunque, in soldoni, grazie a me una donna può capire, su base statistica, i suoi giorni di maggiore o minore fertilità, e regolare la sua vita sessuale di conseguenza.
P.: Esatto Giobbe, hai capito bene. Ti risparmiamo la parte più scientifica, ma vedi qual è il succo della questione?
G.: Io vedo solo un mentecatto. E il problema è che inizio a pensare di essere io.
P.: Si, si, lasciamo stare ‘ste tue paranoie. Il succo è che loro hanno il controllo di loro stesse. Capisci? Hanno un metodo, una direzione, un indirizzo epistemologico, una deontologia. E tu ti permetteresti mai di dire qualcosa a una donna che ti fa: “no guarda tesoro, oggi non possiamo farlo, perché la mia temperatura basale non è adeguata”?! Certo che no! Invece se tu rinunci all’amplesso? Se fai cilecca? Che scusa potresti usare? Non sai nemmeno come funziona il tuo dotto spermatico.
G.: Io non faccio cilecca…
O.: Mi permetto di intervenire, è statisticamente molto difficile che lei non faccia mai cilecca, signor Giobbe…
G.: E tu stai zitto! Andate a fanculo tutti e due, io me ne torno a casa…
P.: Eh… Come sempre, una battaglia persa in partenza. Caro Ogino-Knaus, credo che stasera saremo solo io e lei alla festa.
O.: Così pare…
P.: Ah, solo per chiarire, lei preferisce le bionde o le brune? Non vorrei mai che lì ci intralciassimo a vicenda…

lunedì 24 ottobre 2011

Meditatio de Autumno novo III - Riscaldamento, discoteca, airone


Qui in collegio hanno acceso il riscaldamento dopo che si è sfiorato il sollevamento popolare. Ovviamente io me ne sono tirato da subito fuori, ché non me ne frega niente di queste cose. Lo zelo della gente per le faccende di poco conto è davvero impressionante. C’è sempre qualcosa/qualcuno che non va. Sempre una faccenda in sospeso. Uno screzio nascosto. Un dubbio. Sempre. Tutto questo bisogno di socialità, di concordia, di discordia. Sarà un accenno di sociopatia (“accenno”?!), ma tutta ‘sta storia del consorzio civile inizia a starmi stretta. È proprio faticoso mantenere le relazioni sociali. È faticoso cercare di evitarle.
La storia del monaco è parecchio fuori moda, troppo anche per me. Vorrei un alloggio dentro l’università, ma non dentro tipo campus americano, proprio dentro dentro, nelle aule biblioteche dipartimenti.
Un’altra cosa faticosa? Continuare a parlare di niente. Trovare finti argomenti d’interesse riguardo gli usi e costumi dei rispettivi paesi, il tempo atmosferico, il fatto che – appunto – non hanno ancora acceso i riscaldamenti, la musica alta del mio vicino d’appartamento, il fatto che i cinesi dell’anno scorso sporcavano troppo, quale discoteca sia la migliore di Milano (?!?), quanto sia cara la vita a Milano, che tipo di musica suono col mio gruppo, eccosivvia.
Ora, come già detto altrove non è che pretenda di parlare di Nouvelle Vague o di antroposofia o di prassi ecdotiche. Mi accontenterei dell’ultimo cinepanettone, della dance anni ’90, di cose stupide insomma.
Ma così dicendo sembra che viva in un inferno. In realtà sto molto bene qui, Baggio è una fetta di Italia miracolosamente scampata al boom economico.
E l’altro giorno al parco delle Cave ho visto di nuovo un airone.

venerdì 14 ottobre 2011

Narratio - "Le solitudini di Arnaut" II


Guy sapeva essere davvero un bastardo. Cosa che in effetti era, perché suo padre non era Louis diacono, come lui diceva, ma un bottaio piuttosto celebre fra la plebe per le sue doti amatorie. Lo sapevano tutti, solo lui no. O forse lo sapeva e faceva finta di nulla. Disprezzava profondamente Arnaut e i suoi stupidi studi logici. Lo sopportava soltanto perché suo padre – quello finto – glielo aveva imposto, arrivando a minacciarlo di cacciarlo di casa qualora non lo avesse fatto. Louis era un vecchio placido e profondamente curioso. Nonostante avesse sempre vissuto a contatto con sacerdoti e vescovi, non vedeva di cattivo occhio queste nuove congreghe di studenti e insegnanti. Pensava spesso al fatto che avrebbe voluto fare anche lui una cosa così, se ai suoi tempi fosse esistita. E per questo aveva deciso di ospitare a casa sua, per quello che poteva, Arnaut. Oddio, non gli piaceva proprio quando tornava a casa ubriaco o malmenato, o quando si lasciava andare nei suoi ludibri (una volta aveva trovato un fazzoletto profumato vicino al suo giaciglio, sicuramente di qualche lasciva sgualdrina), ma cercava di chiudere un occhio.
Sapeva benissimo che Guy non era suo figlio. Ma lasciava correre, anche questo. La povera moglie aveva già consumato il peccato quando Louis la conobbe e la sposò. Sicché decise di non sollevare scandali, perché nel mentre lui era entrato nelle grazie del capitolo della cattedrale e non poteva giocarsi tutto così.
Guy era intollerante e crudele. Studiava coi canonici della cattedrale e aveva intenzione di prendere il sacerdozio, di fare carriera, magari di diventare vescovo. La dilezione verso il Signore per lui era tutto, ma la esercitava con una sottile morbosità. Odiava Arnaut, abbiamo detto, odiava il suo modo di passare le notti, il fatto che venisse sempre perdonato, che in quel mondo malato e a testa in giù quel pulcioso vagante poteva diventare davvero qualcuno.
- Così le studi tu, le scritture? -, disse un pomeriggio Guy ad Arnaut con spocchia e asperità.
- Perdonami, così come? -, replicò il chierico, un po’ infastidito.
- Per terra, sulla sozza paglia, diavolaccio che non sei altro!
- Lo spazio è quello che è.
- Serpe. Irriconoscente come un giudeo. Vieni accolto, amato e riverito e osi lamentarti che non abbiamo tavoli da darti?!
- Non volevo dire questo.
- Ebbene l’hai detto -, sentenziò Guy con una smorfia sul viso, per poi voltarsi e uscire con alterigia.
Arnaut si sentiva solo in quella casa. Louis era un buon uomo, ma in fondo era un vecchio che non capiva un granché di come andassero le cose nel mondo. Era ospite, si sarebbe strappato il cuore per riconoscenza verso quella famiglia, ma ormai era un mese e mezzo che dormiva sulla paglia, nell’angolo più freddo della casa. Era solo, solissimo, sradicato. Come Giobbe. A volte si sentiva abbandonato dal Signore, ma sapeva che erano prove. Così stringeva i denti e studiava, si uccideva di studio, faceva lavorare il cuore, le dita, la testa, memorizzava le parole e i concetti, mormorava preghiere e recitava gli Autori, ricopiava le glosse dei suoi maestri. Nel mondo della conoscenza tutto era bello e cristallino. Era il secolo che lo metteva a disagio, ma le Scritture e i filosofi e Virgilio erano un mondo fatto di tutti i padri, gli amici, i fratelli che non aveva mai avuto. Così studiava e studiava e studiava, di notte, consumava lumi e occhi, da solo, nel suo giaciglio. Di giorno non ci pensava troppo, perché i maestri erano i suoi compagni in quei campi Elisi; di notte era solo in quel terribile e meraviglioso viaggio.
E studiava, al freddo, sulla paglia, da solo.

venerdì 7 ottobre 2011

Narratio - "Le solitudini di Arnaut" I


Grezze scanalature solcavano il boccalone di legno, erano sedici e salivano verso l’alto, in maniera irregolare. In realtà tutta quella bettola aveva un qualcosa di anomalo, sembrava sbilenca, storta. Ma Arnaut era sicuro che non lo fosse, quando ci era entrato qualche minuto/ora/giorno prima. E allora, con un po’ di sillogismi aristotelici, ci arrivò. Era la birra che aveva storto la sua prospettiva. La dolce, amara birra. Scura, pastosa, torbida. Diavolo, non avrebbe dovuto bere così tanto. Il solito cretino. È che all’inizio non se ne accorgeva mai, che stava superando la misura. Il che non era grave. Ma ogni sera diventava problematico. Soprattutto la mattina dopo quando andava alla lettura. Boezio non andava d’accordo con il mal di testa e il vomito.
Arnaut si sollevò con fatica, facendo leva sul tavolone con le braccia, urtando quello seduto a fianco a lui. Che per fortuna era ancora più ubriaco e nemmeno se ne accorse. Dunque. Prima di tutto doveva capire in che taverna fosse. Non ricordava se fosse giunto con qualche compagno o meno. Ora gli importava fare due-quattro-sei-otto-dieci-o-quanti-diavolo-fossero passi fino alla casa di Louis diacono, dove dormiva lui. Ma, appunto, innanzitutto bisognava capire dove fosse. Strinse lo sguardo e si guardò lentamente intorno, era tutto un po’ fosco e lattiginoso. Doveva essere al centro della stanza, perché non vedeva muri più vicini di altri, per quanto quel tugurio desse l’impressione di cadergli in testa da un momento all’altro. Ci mise un po’ ma individuò l’uscita: si diresse con passo incerto e dondolante in quella direzione, non c’erano ostacoli, non c’erano persone, non c’erano distrazioni, tranne quelle voci assordanti che si accavallavano e gridavano improperi, canti, il suo nome, il nome del Signore, somme di denaro, debiti e facezie di tutti i tipi. C’era quasi, un paio di passi.
E tutto bianco.
D’improvviso.
Un montone gli sfondò il ventre flaccido.
Si sentì cadere all’indietro, senza fiato, con le budella che gli salivano verso l’alto, su, fino alla testa e per qualche secondo vide bianco, solo bianco, candido, serafini, troni e podestà, un coro di beati e poi di nuovo la nebbiolina e di nuovo le travi sbilenche, poi di colpo un grugno diabolico, un emissario di Gog e Magog, un Bafometto dagli occhi chiari e dalla mascella sporgente. Ma non c’erano fiamme né zolfi, solo una puzza di vino e stufato di pecora vecchia, che usciva dalla sua bocca in forma di parole irruente: - Pezzo di merda, ci senti o no? Tu da qui non esci se non paghi. Non vivo, almeno -; Arnaut fece uno sforzo cognitivo notevole e capì che no, non era ancora la sua ora, o meglio forse lo sarebbe stata fra poco, ma non era il demonio quello, ma l’oste, un oste cattivo e plebeo. Ecco, non poteva che essere “ai due orsi”, l’avrebbe dovuto capire dalla birra scura, una delle più buone della Rive gauche.
Arnaut provò a biascicare qualcosa, a spiegare che non aveva soldi, che lui era uno studente e nulla più, a inventare che era il figlio del tal duca in incognito, che era il fratello del tal vescovo, ma niente, in men che non si dica era sul retro della taverna in mezzo a due orsi, forse i due orsi dell’insegna, l’oste e suo fratello, uguale a lui ma più grosso e più cattivo. Lo pestarono a lungo e con crudeltà, gli spaccarono un sopracciglio a suon di nocche, lo azzopparono con un pestone e lo riempirono di lividi sul ventre e lo presero a calci nelle pudenda.
Arnaut rimase lì, come un vecchio idolo di Babilonia, in un angolo, tutto rotto, a tossire e sputare sangue. Poi riuscì, in un impeto di lucidità tutt’altro che aristotelica, a rialzarsi. Gli faceva male tutto, indistintamente, e forse era meglio così, altrimenti si sarebbe accorto delle costole rotte e della caviglia slogata. Lo avevano svegliato, quelle violenze. Ora sapeva dov’era. Sapeva dove doveva andare.

Ecce enim veritatem dilexisti:
incerta et occulta sapientiae tuae manifestasti mihi.
Asperges me, Domine, hyssopo, et mundabor;
lavabis me, et super nivem dealbabor.
Auditui meo dabis gaudium et laetitiam,
et exsultabunt ossa humiliata.
Averte faciem tuam a peccatis meis,
et omnes iniquitates meas dele. (1)

Lo ruminò a lungo questo pezzo dei Salmi, tornando a casa.

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(1) Ma Tu vuoi la sincerità del cuore,
e nella mia notte, mi fai conoscere la sapienza.
Purificami con issòpo e sarò mondato;
lavami e sarò bianco ancor più della neve.
Fammi sentire letizia e gioia,
esulteranno le ossa che hai spezzato.
Distogli il Tuo sguardo da ogni mio peccato,
cancella tutte le mie colpe. (Salmo 51)

giovedì 6 ottobre 2011

Meditatio de Autumno novo II - "Cum + Legere = Amentia"

[Come il lettore scafato capirà,
si parlerà anche di giostre. Ma non queste]


Insomma, sprazzi di “ispirazione” (ma già ho detto cosa ne penso io di questo concetto). Raccontini formato blog. Rigurgiti adolescenziali. Divagazioni alla Vasco Brondi dopo che s’è ascoltato tutta la discografia di Marco Masini. Marco Masini, molti di voi non lo sapranno, ha anche cantato la sigla di…



Fa un po’ parte del gioco schizofrenico del crearsi tanti begli alterego e popolarci questi fogli elettronici. Poco a che vedere con la letteratura. Però ci sono interessanti cose da analizzare. Piacciono molto i post che parlano del rapporto uomo-donna o di sesso. L’argomento degli argomenti! Dall’Iliade a Tre metri sopra il cielo (basta citare Moccia, porcocazzo), sempre quest’ossessione.
Chissà se piacciono anche i post senza senso né misura né finalità come questo. Un post non di fictio. Che poi stando dietro una tastiera il confine è sottile. Chissà se ero io il protagonista dei raccontini qui sotto, per esempio... Penso che la corrispondenza autore-protagonista sia un lusso che solo Dante può permettersi.
Mi perdonerete se straparlo e divago. Non è la prima volta. È che la vita in collegio è qualcosa di strano, piena zeppa di materiale narrativo, materiale narrativo in forma di tette, birra, personaggi grotteschi, solitudine, manoscritti in fac-simile.
Collegio, ci informa il buon (ma datato) dizionario etimologico Ottorino Pianigiani, deriva dal lat. COLLIGERE, “raccogliere insieme”, composto di COM < CUM e LEGERE, ossia raccogliere, scegliere. Insomma, radunare una mandria di squilibrati. L’Ottorino Pianigiani lo definisce: “Convitto per la educazione di giovani appartenenti a civili famiglie”.
Sarà.
Va bene, la smetto, prima che mandiate un’equipe di alienisti a farmi internare.
Anche perché alle giostre che hanno deciso di allestire giusto dietro la finestra della mia stanza stanno facendo passare da mezz’ora, nell’ordine, “Dragonball GT”, “Quando i bambini fanno oh!”, “Gioca jouer”, “Le tagliatelle di nonna Pina” e “Calimero dance”.
Cose che fanno riflettere.

mercoledì 5 ottobre 2011

Narratio - "Pseudo-Moccia"


Quella notte era una cagna dal ventre atro e arcuato che correva stupidamente cercando di mordersi la coda. Camminavo da un paio d’ore, senza un motivo e senza una meta. Gli eleganti palazzi deserti provavano a spaventarmi con le loro luci alogene di emergenza e i loro cortili bruciacchiati, ma io all’epoca ero un ragazzo coraggioso, si, ero indomito e battagliero, non potevano essere degli ammassi di pietra e mattoni e vetro e carne e agglomerati di anime a intimorirmi. Non ricordo che mese fosse, mi pare febbraio o marzo; ricordo che era un lunedì perché di lunedì facevano il lavaggio strade in quella zona. Una camionetta mi sradicò l’udito con le sue diaboliche spazzole che castravano l’asfalto, nel vano tentativo di togliere le gomme da masticare e altre schifezze. La quantità di gomme da masticare attaccate per terra era impressionante. Quella notte ne contai centottantuno, prima di annoiarmi. Poteva essere un interessante indicatore sociale, quello delle gomme. Chissà interpretabile in che modo.
Mi piacerebbe poter dire che non incontrai Brigida per caso, eviterei noiosissimi e ritriti pipponi pseudo-Moccia sul destino e sull’amore e cose così, però davvero, ve lo giuro, la incontrai per caso. Lei non sapeva dove fosse la fermata del 16, io non sapevo spiegarglielo e a dire il vero non avevo tanta voglia di provare a farlo. Ma andavo in quella direzione, così facemmo un centinaio di metri assieme. Camminavamo a un metro e mezzo di distanza, io stretto nella mia sciarpa, lei nel suo cappotto verde. Parlammo intensamente, ma solo nella nostra testa. Mentalmente mi raccontò che aveva ventidue anni e studiava greco miceneo, che aveva una nonna scampata ai campi di concentramento, che suonava l’oboe, che amava Verlaine, che una volta aveva bevuto così tanto da inciampare e cadere addosso a un vigile, che però era stato gentile e non le aveva detto niente, che amava la Normandia, che il suo pittore preferito era Gauguin e che le piaceva il tonno scottato alla piastra. Anche che si chiamava Brigida me l’aveva detto con la trasmissione del pensiero.
- Grazie, buonanotte -, disse mentre saliva sul 16, sorridendomi appena.
Immobile, feci lo stesso.
Lo sferruzzare acre dei binari mi riempì per qualche secondo le orecchie, poi l’ultimo tram della nottata si disciolse nella città, lasciando un sentore di piscio e di mandorla nell’aria.
Non penso di ricordare il numero di telefono che mi lasciò telepaticamente.

domenica 2 ottobre 2011

Narratio - "Niente di personale, niente di programmato"


[immagine di Eleonora Prado]


Il gruppo dei nichilisti giocava a calciobalilla in un angolo della sala. Erano cinque e giocavano senza entusiasmo. Il quinto, Rutger, a dire il vero non giocava. Era il classico amico di troppo, perché a calciobalilla si gioca in quattro. Stava appoggiato con una spalla contro il pilone e in mano teneva il suo Long Island, sorseggiandolo con affettazione.
Dei quattro giocatori, un paio soltanto erano interessanti.
Luigi detto “Morchia”, difensore dei rossi, era davvero davvero nichilista, più degli altri quattro nichilisti. Giocava rassegnato.
Flea, l’attaccante dei blu, segnava facilmente ma non si entusiasmava, perché era nichilista, sebbene non così tanto come il Morchia.
Bilbo e Chris passavano proprio inosservati, e la cosa piaceva loro, ma non troppo.
Tutto stava andando male quella sera, ma proprio male come un nichilista si aspetta. Faceva caldo, si sudava, Rutger tirava su il suo cocktail con la cannuccia, Morchia sbuffava prendendo un gol, Flea segnava e si grattava la testa, Bilbo e Chris non pervenuti. Nemmeno il passaggio di una castana da paura (che è una terminologia un po’ anni ’80, ma la cosa ai cinque piaceva, per quanto qualcosa possa piacere a un nichilista) li distolse dalla loro routine. Aveva due tette non da ridere e non era neanche troppo punk. Solo un paio di tatuaggi in vista e appena un piercing al naso. I capelli erano corti, ma non colorati. Insomma, una tipa a posto. Sembrava essere interessata a Flea. I bomber fanno sempre colpo.
C’erano i Rammstein in sottofondo. Bé, sottofondo. Coprivano tutto.
Rutger muoveva la testa a ritmo. Piano piano, s’intende. Guardava qualcosa in fondo alla sala, su un muro. Lo spazio fra due pietre, forse. C’era una crepa, fra quelle due pietre, sarebbe caduto tutto, tutto. In testa a loro. Ma non sarebbero scappati, no. A che pro? L’Oscuro Mietitore avrebbe fatto calare la falce sulle loro teste lo stesso, prima o poi. È che è stupido fare locali ricavati in dei magazzini fluviali, questo pensava Rutger. Acqua che da secoli si infiltra, si infiltra, si infiltra, scava, scava, scava e poi un bel giorno, sabato 2 ottobre 2011 alle ore 01.02, BAM.
La ragazza si era avvicinata al calciobalilla, sorrideva.
- Chi vince? -, esordì con un sorriso, che tradiva due o tre cocktail di troppo.
- Loro -, rispose senza enfasi il Morchia. Gli altri tacevano, e giocavano senza trasporto.
Rutgar continuava a fissare la crepa.
L’Oscuro Mietitore ancora non si vedeva.
La ragazza fece una smorfia, ma Flea le piaceva, era un bel ragazzo. Su di lui era interessante l’aura di scazzo. Così rimase lì. Anzi, si appoggiò al calciobabilla, dalla parte della porta rossa, così stava vicino alla sua preda.
Flea segnò ancora, con un bel tiro da centrocampo.
- Bravo! - fece la ragazza con trasporto, tentando di imbastire una conversazione.
- Veramente è stato un caso, ho tirato, è entrata. Tutto qui -, disse Flea con tono piatto e distaccato.
- Bé dai, stai segnando un casino!
- Questo è vero, ma è il Morchia che è scarso.
- Ha ragione -, ammise il Morchia senza entusiasmo.
Rutgar aveva finito il Long Island, il dj aveva deciso che era ora di Aphex Twin, la crepa non si allargava e di cappucci e falci nemmeno l’ombra.
A ottobre a Torino non può fare così caldo. Stava decisamente arrivando la fine del mondo, tutti ci speravano lì in mezzo.
- Mi offri una birra? - azzardò la ragazza.
- Si può fare - si pronunciò Flea.
- Tanto abbiamo perso -, fece il Morchia.
Bilbo e Chris, non pervenuti.
Rutger si distrasse un attimo vedendo la coppietta che si avviava al bancone. Morchia gli si avvicinò: - Carina -, disse.
- Già -, replicò, immobile, Rutger.
- Secondo te se la fa?
- E anche se fosse?
- Boh.
- Si, se la fa, comunque.
- Buon per lui.
- Già.
- E se non se la fa?
- Che vuol dire “se non se la fa”?
- Se non se la fa.
- Bé, se non se la fa, non se la fa -, disse con tono un po’ scocciato Rutger. Ora si era voltato verso il Morchia, dando sempre le spalle alla colonna umidiccia.
- Mh.
- Perché, te la vuoi fare tu?
- No macheccentra, dicevo per dire.
- Tu non dici mai per dire.
- Ma che dici? Io dico sempre per dire!
- Tu dici per dire che dici sempre per dire, ecco cosa dici!
Flea e la ragazza presero due birre in quei brutti bicchieri di plastica. La ragazza si chiamava Bea e studiava fisioterapia. A Flea bastava sapere questo. A Bea piaceva che il suo nome facesse rima con quello di lui. Però si chiese se non si dovesse pronunciare “Flia”. Ma lo sapeva lui, come si chiamava, eccheccavolo. Di certo il suo non si pronunciava “Bia”. Quindi amen. Flea. Bea.
- E te che studi?
- Lavoro.
- Cosa fai?
- Il cameriere.
- Ah, figo, dove?
- In una pizzeria in zona Corso Belgio.
- Figo, una volta ti vengo a trovare!
- Non ti piacerebbe.
- Perché?
- La pizza è una merda e in cucina ci sono gli scarafaggi.
- Ah…
Mentre Bilbo e Chris continuavano a fare cose non degne di nota, il Morchia e Rutger decisero di sedersi sui divanetti lerci.
- Non è che devi sempre pensare che io abbia impellenti necessità sessuali -, riprese il Morchia.
- Non lo penso sempre.
- Oh.
- Solo stavolta.
- T’ho detto che non mi interessa! E poi se la sta baccagliando Flea.
- Ok, ok, come ti pare.
Rutger si annoiò subito dell’argomento e riprese a fissare la crepa. La fissava con ardore, come se volesse provocarla. La fine del mondo. Sarebbe arrivata prima o poi, prima o poi.
- E’ che alla fine mi va sempre male con le tipe… - riprese il Morchia, ora lamentoso.
- Cristodio, ricominciamo.
- Flea se le fa sempre tutte.
- 1) è più figo; 2) chissenefrega.
- Uff… Sempre con me ve la prendete.
Bilbo e Chris nulleggiavano amabilmente. Il dj passò a qualcosa di più indie, Artic Monkeys.
- Senti, sono un po’ ubriaca e quindi te lo dico chiaro e tondo… - disse Bea sorridendo.
- Mh.
- Mi piaci.
- Anche tu mi piaci.
- Andiamo a fare un giro?
- Ok.
Bea prese per mano Flea e se lo trascinò fuori, ridendo e socchiudendo gli occhi. Il Morchia sbuffò, Rutger sorrise a mezza bocca, poi tornò alla crepa, ai suoi mantra per la fine del mondo. Sentiva che mancava poco. Flea si sarebbe salvato si, ormai era fuori. Ma era giusto così. Per ripopolare il pianeta lui sarebbe stato perfetto. Quella tipa poi prometteva bene.
Rutger chiuse gli occhi, forte, “They said it changes when the sun goes down, over the river going out of town”, tutto sarebbe sparito in quel momento, così, tutto doveva finire, finire per ricominciare o semplicemente finire e basta, senza rimorsi, senza offendersi, non avrebbero sofferto, o avrebbero sofferto ma non c’erano problemi, niente di grave, è anche questo la vita, figurarsi la morte, tutto sarebbe diventato nero e a forma di spirale, tutto sarebbe collassato, sarebbe morto lo spazio e sarebbe finito il tempo, due concetti senza senso da lì in poi, spazio, tempo, tette, calciobalilla, cocktail, tutto avrebbe perso senso, il senso avrebbe perso senso, nulla, nulla, anche l’idea di nulla sarebbe svanita, tutto sarebbe imploso, esploso, annullato, ma niente di personale, niente di programmato, nessun problema, nessun rancore, solo uno slancio gratuito, immotivato, cieco, istintivo, di nichilismo.

venerdì 30 settembre 2011

Alius Carmen - "Casa sul mare"


ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora I minuti sono eguali e fissi
come I giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.

Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.

Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l’avara mia speranza.
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.


(Eugenio Montale, Casa sul mare, in Ossi di Seppia, 1925)

mercoledì 28 settembre 2011

Meditatio de Autumno novo I


No, è che uno non si rende conto che il tempo passa. E tutte quelle attività che dovrebbero essere cicliche, vengono bypassate e sostituite da bisogni primari/secondari/accessori/voluttuari. Sicché ci si dimentica sovente di pranzare, di andare a correre, di aggiornare il blog, di studiare con regolarità. Ci si dà belle e buone scuse legate in qualche modo all’ispirazione, alle muse, al clima, all’umore. Ma in realtà non siamo programmati per far combaciare i nostri tempi con quelli del mondo. E con mondo intendo due cose:

  1. il mondo mondo, quello fisico e metafisico creato da nonsisacchì tanto tempo fa, con le sue belle stagioni, i cicli lunari, gli anni, i giorni e se proprio vogliamo anche i cicli vitali (nascita, riproduzione, morte…);
  2. il mondo come consorzio sociale degli uomini, fatto di orari d’ufficio, giorni di vacanza, levate mattutine, feste comandate, pause sabbatiche, sessioni di esami, aperitivi…

E non è vero, cazzo, che l’uomo è un animale sociale. Non nell’accezione comune, almeno. L’uomo è un animale e basta. Ed è talmente debole da aver bisogno di altri per fare quello che la maggior parte delle altre specie fa anche in solitudine: sopravvivere. Una mammella i primi mesi, una compagna fugace per perpetrare la specie e via. Se andiamo poi nell’universo dei non-mammiferi, si può fare a meno pure di questo.
Animale asociale. E pure debole. Capace di grandi cose, tutte perfettamente inutili. Pronto a costruirsi una realtà farlocca e autoconvincersi che sia quello lo status quo, “il migliore dei mondi possibili”.