martedì 16 agosto 2011

Altercatio virorum de mulieribus - "L'origine della specie" III


Giobbe: senti, sarà un mese che faccio quei cazzo di esercizi….
Patronio: e allora?
G.: non funzionano.
P.: in che senso non funzionano?
G.: porca puttana, c’è un solo senso nella frase “non funzionano”!
P.: e non ti incazzare! Certo che se l’atteggiamento è questo, c’è ben poco da fare…
G.: e che c’entra l’atteggiamento, adesso?
P.: vedi, è tutta una cosa di testa. Le donne sono ormonalmente predisposte a questo tipo di cose. Capisci, per loro l’atto sessuale è più importante.
G.: mah, a me non sembra proprio così… La storia non era che noi pensiamo sempre al sesso, eccetera eccetera?
P.: quella non è “la storia”, è la vulgata che Q hanno escogitato. La verità è che per loro è più importante. Segui il mio ragionamento…
G.: ci risiamo.
P.: andiamo alle origini della specie. Immagina tipo… la savana. E un gruppo di uomini delle caverne. Che poi non ho mai capito perché si chiamino uomini delle caverne se vivevano anche nella savana, in riva a laghi, nelle foreste…
G.: ma cristo, ci riesci a non delirare?!
P.: ok, ok, scusa. Dicevo: uomini delle caverne. Quanti rapporti sessuali può avere un uomo delle caverne?
G.: mmm… Vabbè dipende. È bello?
P.: idiota. Fai il serio una volta tanto e concentrati!
G.: si si si… IO devo fare il serio… ‘sciamo stare. Ok, quanti potrà averne…
P.: te lo dico io: potenzialmente infiniti.
G.: beati loro…
P.: ho detto POTENZIALMENTE. Le donne invece, quanti?
G.: bè… POTENZIALMENTE infiniti…?
P.: cretino. La donna rimane in cinta. Quindi uno ogni nove mesi circa, in condizioni normali.
G.: e allora?
P.: e allora per la donna era importantissimo giocarsi quell’unica, preziosa, fottutissima possibilità! Da qui l’invenzione dei PP, la ricerca degli OM, Sex and the city e via di scorrendo… Gli è rimasto addosso, capisci? Anche oggi che può avere più rapporti, la sua mente è tarata in questo modo! È la specie, è Darwin!
G.: tu sei un cazzo di drogato. Cosa ti sei calato, deficiente?
P.: tu non ti rendi conto, ma hai un’arroganza spaventosa, caro amico. Ed è la tua presunzione a renderti un essere meno idoneo alla riproduzione. E Laura ne sa qualcosa.
G.: uh, che bell’amico. Pure il dito nella piaga adesso!
P.: no, caro mio! Io lo dico per il tuo bene. La guerra è iniziata. E Q l’hanno dichiarata, non noi! Dobbiamo prepararci, che sono subdole e scaltre.
G.: vabbè, ho capito. Vado a farmi un aperitivo, tu prepara l’armamentario…

lunedì 15 agosto 2011

Iudicium - Andrea Dilillo, "Non ce la farò mai a scrivere un libro"


Recensire è cosa da arroganti, saccenti, superbi, irrispettosi, acidi, ipercritici, pignoli, alteri, presuntuosi, boriosi, prepotenti, pedanti, polemici e così via. Tutte cose che più o meno mi appartengono, quindi vi annoierò ancora una volta con il mio giudizio riguardo qualcosa, come se ve ne importi. Se poi ciò che vado a recensirvi è il romanzo di un mio amico, la paraculata è evidente.
Perciò partirò dai difetti.
“Non ce la farò mai a scrivere un libro” di Andrea Dilillo (Aletti editore, 2011) è una raccolta di racconti che solo parzialmente riesce a essere un romanzo. L’intento metaletterario, evidente fin dal titolo, è affannoso e, in fin dei conti, deludente. Lo stile è imperfetto, a volte banale, di certo discontinuo. Le descrizioni spesso sono didascaliche e si esauriscono in un’aggettivazione semplicistica.
Ok, ok, così sembrerebbe che ve lo voglia sconsigliare. Ma no, non è questa l’intenzione. Il primo e finora unico romanzo di Dilillo è in realtà veramente interessante e “appetitoso”, nel senso che, una volta entrati nella fine macchina narrativa sapientemente costruita dall’autore, difficilmente si riuscirà a interrompere la lettura.
Ma andiamo con ordine.
“Non ce la farò mai a scrivere un libro” è un insieme di racconti, apparentemente indipendenti, tenuti insieme da una cornice metanarrativa: un giovane scrittore (lo stesso Dilillo?) non riesce a concretizzare la sua ispirazione letteraria e raccoglie, via via, i suoi esperimenti. I primi racconti, brevi, semplici, stilisticamente carenti, sono seguiti da narrazioni via via più lunghe, complesse, ben scritte. Una sorta di auto-“romanzo di formazione” letteraria. Fin qui, come ho detto, niente più che un insieme di racconti. Le storie però – ed è, all’inizio, solo un presentimento; solo a metà libro si ha la certezza, e solo alla fine si capisce la portata dell’operazione – non sono slegate fra loro. Sono, anzi, tasselli di un unico, corale, romanzo. L’opera allora acquista un’interessante sfumatura: è un romanzo che in realtà è una serie di racconti che in realtà sono un romanzo. Il tutto è, quasi pirandellianamente, ancora più complesso: il surrealismo dell’autore, che compone tante piccole storie, singole, indipendenti, che alla fine, quasi magicamente, vanno a formare un quadro coerente e organico, è davvero coinvolgente.
La trama, come ci si può aspettare, non esiste in quanto tale. I racconti, posti a livelli cronologici diversi, sono tutti incentrati su singoli personaggi. Il nucleo narrativo è, anzi, sempre la storia del personaggio. Sono come tanti piccoli romanzi di formazione, di personaggi improbabili ma realistici – e i punti di forza dell’opera sono proprio l’introspezione dei personaggi e il loro spessore psicologico – che vanno a formare una “genealogia” grottesca e malata. Malata, già, come malati sono gli scenari e le situazioni in cui si muovono i protagonisti: in ordine sparso un prete mistico e pedofilo, un’assistente sociale attratta dalla morte, uno stupratore supereroe, un pittore drogato di dolore, una defecatrice per professione, un vecchio che torna giovane, sono solo alcuni dei protagonisti di questa “parata selvaggia”.
Dilillo racconta l’assurdità non tanto della società moderna, quanto dell’uomo e delle sue relazioni sociali e sentimentali. Ma c’è qualcosa in più. C’è una riflessione, costante, sul trascendente, che poi, nella visione dell’autore, non è tanto lontana dal contingente: il bene, il male, il destino, la sofferenza, Dio, tutto traspira dai racconti; e prende via via concretezza un sistema filosofico (che espressione brutta e abusata… sto perdendo colpi), teorizzato in maniera esplicita – due o tre dei racconti hanno proprio questo aspetto “cosmogonico” – ma presente in filigrana a tutti i racconti.
Insomma, davvero una buona prima prova da scrittore, che si presta a numerose considerazioni e analisi. Ma a farle vi rovinerei il piacere della lettura (anche perchè ho usato già troppe volte parole orribili come "metaletterario", "metanarrativo" et similia). Quindi vi lascio il sito della casa editrice, dove potrete compralo (se lo fate e mi inviate una foto di voi col libro in mano, vi vengo a offrire da bere):

Sito della casa editrice dove potrete comprare il libro e se lo fate vi offro blablabla...

Buona lettura!

sabato 13 agosto 2011

Meditatio aestatis novae III - Monitus de locis videndis

[Nei secoli intercorsi fra oggi, 15 dicembre 2012, e questo post, facebook ha fatto le bizze e non potrete più vedere le foto. Tiè]

Resoconto della vacanza? Dio me ne scampi, la pigrizia mi si è avvinghiata addosso, non riuscirei. Diciamo che vi consiglio due o tre posti da vedere.

Anzio
Anzio è una cittadina piuttosto triste come tutte le cittadine di mare di quel tipo, con tanti angoli davvero carini invasi da frotte di turisti incivili e burini, centinaia di ristoranti tristi e impersonali, blocchi di cemento fatiscenti pieni di residence, alberghi e simili. Quando però passeggi sul lungomare e di colpo ti trovi davanti questo
(che, per inciso, sono i resti della domus Neroniana, la residenza estiva dell’imperatore Nerone, costruita sul già esistente palazzo di Augusto [che a sua volta sorge sui resti di tre ville di età repubblicana] – e si noti, è l’unico parco archeologico che dà su una spiaggia), o mentre ceni ti capita di vedere questo
(e, sempre per inciso, Anzio è città di pescherecci, con del pesce buono ma buono buono), ti dici che, tutto sommato, merita una vacanza. Anche perché, quando sarai annoiato dalla triste vita borghese vacanziera, in mezz’ora di treno sei a Roma. Mica cazzi, direbbero gli autoctoni.

Ponza
Le isole hanno quel nonsocché. Ponza non fa eccezione, anzi. È colorata, vivace, piena di giovani, ma anche di abitanti locali, di negozietti, anche (se vi inoltrate) di contadini, riserve naturalistiche, resti archeologici.
Il fascino e il brivido di vivere, per qualche giorno, completamente staccati dal resto del mondo (seppur con tutti i confort, le discoteche, i negozi del caso) è stuzzicante. Se poi c’è questo mare…
(è la spiaggia di Frontone, comodamente raggiungibile tramite il servizio di battelli; 4 euro al giorno, si può fare alla grande).

Ninfa
Questo posto è un miracolo. Un’antica città medievale, già romana, andata distrutta nel corso dei secoli. Un’esponente dell’ultima famiglia di possessori, i Caetani (l'apostrofo non è un errore, è che l'esponente è femmina), che nel 1921 decide di costruirci, intorno, un giardino all’inglese.
La Fondazione Caetani (che ora gestisce il giardino, dopo l’estinzione della famiglia negli anni ‘70) fa un lavoro fantastico, tieni tutto in ordine e fa entrare pochissime persone l’anno (noi siamo, per puro caso, seguendo un cartello, riusciti ad entrare nell’unico giorno di agosto di apertura), rigorosamente scortate dalla guida.
Veramente fuori dal mondo e dal tempo.

Sermoneta
Questo posto lo conoscete ma non sapete di conoscerlo. Qui sono state girate alcune scene di “Non ci resta che piangere” e diversi altri film e fiction. Il paesino è meraviglioso, tutto in pietra e tenuto veramente bene. Non ci sono molti turisti, ma diversi posti autentici dove mangiare e comprare prodotti del posto.
Il fiore all’occhiello è il castello, sempre appartenuto alla famiglia Caetani e sempre gestito dall’omonima fondazione.
Uno dei castelli meglio tenuti che abbia mai visto, semplice e affascinante, con un panorama mozzafiato e, anche in questo caso, una guida competente.

Insomma, se siete Laziali avete tutti i fine settimana che volete per andare a vedere questi posti. Se non lo siete, come me, sfruttate l'occasione e uscite un po' dai soliti giri da agenzia turistica, ne vale la pena.

martedì 2 agosto 2011

Meditatio aestatis novae II - Silentium. Iterum.

[non costringetemi sempre a trovare un movente per l'immagine]

Come ogni buon proposito che si rispetti, anche quello di curare il blog come una brava e dolce massaia con tanto di unghie laccate e capelli cotonati è andato a farsi fregare. Come scrissi qui e altrove, se la costanza è dote rara nella vita, figurarsi nell’arte (presunzione delle presunzioni). Poi, bè, per rimanere nell’ambito delle ovvietà, si può facilmente constatare che più sono incasinato, più scrivo e più sono in panciolle, meno mi ci applico. Poi l’estate mi fa sempre questo strano effetto un po’ asprognolo. Sarà che sono abituato alle estati anomale… Adesso me ne vado qualche giorno in trasferta, ho promesso a un amico una ventina di pagine al mio ritorno.
Magari il movimento ispira.