martedì 17 settembre 2013

Rho Fiera Milano


Le turpitudini e laidezze di Trenitalia hanno colpito ancora. Un paio di finesettimana fa mi sono ritrovato a gironzolare per più di un’ora nella stazione di Rho Fiera Milano, causa ritardo del treno con conseguente perdita della coincidenza. 
Già mi era capitato di passarci qualche minuto per interscambi vari.
Ma un’ora intera, di domenica sera per giunta, è un’altra storia, credetemi.
Avete presente i nonluoghi di Augé? Ecco, a confronto di Rho Fiera Milano sono frizzanti convivi di persone bellissime e piene di cose da dire. Innanzitutto, la vita biologica è quasi del tutto bandita. Pochi, isolati individui tendono a concentrarsi sulle banchine lungo i binari. 


Sotto, nel ventre luccicante del mostro, ho avvistato un unico, catatonico, omino della metropolitana, che attraverso il suo gabbiotto scrutava con indole vacua la vetrina dell’unica (e per giunta chiusa) edicola.
No davvero, sembrava di stare in uno di quei film post-apocalittici in cui le macchine hanno preso il potere e soggiogato la razza umana, lobotomizzandola e succhiandone l’energia, o costringendola ai lavori forzati. Non c’era anima viva, eppure tutto era pulito, luccicante, pronto all’uso.


Immagino che parte delle vetrine spoglie accolga gli stand della fiera, in qualche sporadica occasione.
Una marchingegno in particolare ha attirato la mia attenzione, o meglio, un bisogno piuttosto scatologico mi ha fatto notare qualcosa di bizzarro: un bagno automatico.
Funziona a gettoni. Click, 20 centesimi.
Si sente uno scroscio d’acqua, una porta automatica si apre sparendo nella parete.
Un pavimento righettato, in linoleum nero, accoglie generosamente l’acqua del lavaggio automatico mista a liquidi di varia, abissale natura.
La carta esce schiacciando un pulsante. Anche l’acqua per lavarsi le mani.
Si schiaccia un pulsante rosso antipanico (inutile dirlo, l'effetto sortito è l'opposto) per uscire.
La porta ti si richiude roboticamente alle spalle.
Giuro che a ripensarci mi viene ancora la sensazione di essere stato osservato da qualche automa maniaco.
Ho visto anche due disumane biglietterie automatiche, per le tratte regionali. Niente personale ferroviario, capi-stazione, tabelloni con gli orari. Ho girato in lungo e in largo per trovare una macchinetta con snack o bevande, dimentico del fatto che si tratta di bisogni futilmente organici. Niente.


Ho provato a uscire fuori, prendendo un nastro che con la celerità di una veglia funebre mi ha sospinto all'esterno. Mi ha stupito l’assenza di strade. Intendo strade pedonali, insomma, quelle che ti permettono di raggiungere altri luoghi; c'era solo l'enorme cavalcavia di una qualche autostrada, che tiranneggiava alto. Avventurandomi nel parcheggio (deserto) ho scorto una salita di terra battuta che portava a un’enorme quartiere di palazzoni in costruzione.
E ancora oltre, cupo, un circo apparentemente abbandonato, silenzioso. I circhi fanno già abbastanza paura di loro, c’è da dirlo. Preso dall’ansia, tornai nel rassicurante e glaciale opificio robotico.
Pian piano mi abituai all’atmosfera. Quasi rifuggivo quei pochi zombi che di tanto in tanto si immergevano nella stazione, tramite chissà quali cunicoli. Dopo una quarantina di minuti, mi sembrava quasi fosse diventata la mia cristallina Fortezza della solitudine


Poi, d’improvviso, il silenzio che regnava incontrastato fu infranto da una voce sintetica, inespressiva. L’intelligenza artificiale che controllava la struttura (perché sono convinto si tratti di un unico, enorme computer) parlò, a me, solo abitante di quel residuo di macerie abbandonate da Moloch, Azrael, Giuliano Ferrara o chi per loro, annunciando l’arrivo del treno regionale ad alta velocità Milano Centrale – Torino Porta Nuova.
Scosso, presi la via di una delle tante scale mobili e mi riunii al consorzio umano di quelli che viaggiano di domenica sera, pochi ma buoni, infreddoliti e affamati, ma vivi, almeno.

giovedì 5 settembre 2013

Annie Vivanti - "Naja Tripudians" (ossia, "Austen vs. Baudelaire")



E cominciamo, allora, a parlare degli insoliti libelli che ho trovato qualche tempo fa per le vie di un paese semi-sconosciuto del varesotto.
Vi sarete accorti, con quel minimo di raziocinio che senz’altro vi contraddistingue, o omuncoli insignificanti, della mia passione per il latino; avrei mai potuto ignorare, io, un libro dal titolo Naja Tripudians…? Devo essere onesto, mi aspettavo un romanzo riguardante un servizio militare allegro e movimentato. E invece no, Naja Tripudians è il nome scientifico del Cobra indiano, quello che si incanta con piffero, per intenderci; ok, ok, foto:

(Me tapino, dimentico della mia esperienza da lettore fantasy/giocatore di ruolo/nerdone, non ho associato la parola Naja ai Naga, mitologica razza di uomini-serpente della tradizione vedica... Ci potevo arrivare, eh?)

Ebbene, Naja Tripudians è un romanzo del 1920 di Annie Vivanti, scrittrice sui generis di cui ho già avuto modo di parlare, ma su cui senz’altro tornerò in futuro, per le sue peculiarità tanto biografiche quanto letterarie. La storia è semplice: Francis Harding, un medico inglese che in gioventù ha girato il mondo per studiare la lebbra e trovarvi una cura, si ritrova vedovo e con due figlie a cui badare, Myosotis e Leslie. Le ragazze crescono sane e spensierate, coccolate dal padre e dall’atmosfera ovattata della campagna inglese, fino all’arrivo nel loro piccolo paese dell’elegante Lady Randolph e della sua corte di bizzarri viveurs; l’attrazione per la vita cittadina e per le sue voluttà, come un veleno incurabile, trascinerà le due ragazze in un incubo a occhi aperti, ribaltamento dell’idilliaco mondo cortese che si aspettavano dalla capitale.
Questo è tutto, più o meno. Ah, il finale non vi piacerà. Vi conosco. Io sono ancora indeciso se sia una paraculata o un raffinato volo pindarico.
La Vivanti, comunque sia, ha uno stile piuttosto lontano dai suoi colleghi di inizio novecento: tende alla chiarità, non abbonda di descrizioni, affida il proprio magnetismo a modalità ottocentesche (romanticismo, scapigliatura) piuttosto che a virtuosismi modernisti.

"Lasciarono fare a Madre Natura - vecchia levatrice cieca, sorda, pazza e perfida - e quella condusse alla vita, su un fiottolo di sangue, una fragile creatura novella; e spinse alla Morte, sulla stessa onda purpurea, l'altra e più preziosa esistenza".

La materia è piuttosto banale, ma venata di una naïveté coinvolgente: Naja Tripudians parte come un Piccole donne e termina, rocambolescamente, in un À rebours, divisione marcata anche strutturalmente da una (deliziosa) sezione epistolare a metà dell’opera. Come si legano i pittoreschi racconti della vita quotidiana delle due sorelle con il depravato affresco degli ambigui festini londinesi? Semplice: non si legano. È difficile da spiegare… Avete presente Twin Peaks? Ecco, non è molto diverso da quello che fa Lynch quando mescola (agitando, non shakerando) soap opera e horror.
Ora me la tiro un po’; l’edizione in cui ho letto Naja Tripudians è questa: 


Una succosa seconda edizione Bemporad (Firenze) del 1921. Che non credo sia rara o cosa, ma fa figo dirlo. In ogni caso bazzicando on-line ho visto che qualche edizione degli anni ’70 si trova. Sarebbe bello vederne un’edizione nuova, chissà…

…The rest is silence
W. Shakespeare



P.S. Ok, è patetica la citazione finale, ma è in esergo al libro, quei tre puntini di sospensione me l’hanno proprio tirata via dal mouse.