E cominciamo, allora, a
parlare degli insoliti libelli che ho trovato qualche tempo fa per le vie di un
paese semi-sconosciuto del varesotto.
Vi sarete accorti, con
quel minimo di raziocinio che senz’altro vi contraddistingue, o omuncoli
insignificanti, della mia passione per il latino; avrei mai potuto ignorare,
io, un libro dal titolo Naja Tripudians…? Devo essere onesto, mi aspettavo un romanzo riguardante un servizio militare allegro e
movimentato. E invece no, Naja Tripudians è il nome scientifico del Cobra indiano,
quello che si incanta con piffero, per intenderci; ok, ok, foto:
(Me tapino, dimentico
della mia esperienza da lettore fantasy/giocatore di ruolo/nerdone, non ho
associato la parola Naja ai Naga, mitologica razza di uomini-serpente della
tradizione vedica... Ci potevo arrivare, eh?)
Ebbene, Naja Tripudians è un romanzo del 1920 di Annie Vivanti, scrittrice sui generis di cui ho già avuto modo di parlare, ma su cui senz’altro tornerò in futuro, per le sue peculiarità tanto biografiche quanto letterarie. La storia è semplice: Francis Harding, un medico inglese che in gioventù ha girato il mondo per studiare la lebbra e trovarvi una cura, si ritrova vedovo e con due figlie a cui badare, Myosotis e Leslie. Le ragazze crescono sane e spensierate, coccolate dal padre e dall’atmosfera ovattata della campagna inglese, fino all’arrivo nel loro piccolo paese dell’elegante Lady Randolph e della sua corte di bizzarri viveurs; l’attrazione per la vita cittadina e per le sue voluttà, come un veleno incurabile, trascinerà le due ragazze in un incubo a occhi aperti, ribaltamento dell’idilliaco mondo cortese che si aspettavano dalla capitale.
Questo è tutto, più o
meno. Ah, il finale non vi piacerà. Vi conosco. Io sono ancora indeciso se sia
una paraculata o un raffinato volo pindarico.
La Vivanti, comunque sia,
ha uno stile piuttosto lontano dai suoi colleghi di inizio novecento: tende
alla chiarità, non abbonda di descrizioni, affida il proprio magnetismo a
modalità ottocentesche (romanticismo, scapigliatura) piuttosto che a virtuosismi
modernisti.
"Lasciarono fare a Madre Natura - vecchia levatrice cieca, sorda, pazza e perfida - e quella condusse alla vita, su un fiottolo di sangue, una fragile creatura novella; e spinse alla Morte, sulla stessa onda purpurea, l'altra e più preziosa esistenza".
La materia è piuttosto
banale, ma venata di una naïveté coinvolgente:
Naja Tripudians parte come un Piccole donne e termina, rocambolescamente, in un
À rebours, divisione marcata anche strutturalmente da una (deliziosa) sezione epistolare
a metà dell’opera. Come si legano i pittoreschi racconti della vita quotidiana
delle due sorelle con il depravato affresco degli ambigui festini londinesi?
Semplice: non si legano. È difficile da spiegare… Avete presente Twin Peaks?
Ecco, non è molto diverso da quello che fa Lynch quando mescola (agitando, non
shakerando) soap opera e horror.
Ora me la tiro un po’; l’edizione
in cui ho letto Naja Tripudians è questa:
Una succosa seconda
edizione Bemporad (Firenze) del 1921. Che non credo sia rara o cosa, ma fa figo
dirlo. In ogni caso bazzicando on-line ho visto che qualche edizione degli anni
’70 si trova. Sarebbe bello vederne un’edizione nuova, chissà…
…The rest is silence
W. Shakespeare
P.S. Ok, è patetica la
citazione finale, ma è in esergo al libro, quei tre puntini di sospensione me l’hanno
proprio tirata via dal mouse.
Ecco un libro che non mi verrebbe mai voglia di leggere, senza nulla togliere alla tua ottima recensione. C'è però un particolare in merito al quale, stimatissimo collega, vorrei chiederti delucidazioni. Venendo al sodo: mi puoi illustrare meglio il concetto di "che si incanta con il piffero"?.
RispondiEliminaCordialmente sempre suo
Samu
Esimio, il libro è abbastanza brutto da poterle piacere, glielo garantisco!
RispondiEliminaRiguardo il quesito accademico postomi, non si tratta di negazione (celebre la casistica: "Mi presti dieci talleri?" "Col piffero!"), e nemmeno di bizzarre pratiche zoofile. Mi riferisco all'uso tutto indiano di far ballonzolare le serpi al dolce suono dello zufolo.
D'accordo, non ho dissipato la metafora oscena, ma quantomeno ora sono stato anche razzista, il che mi basta!
Uno scientifico e caloroso abbraccio,
Enrico
il libro è quello che è. Brutto, in base a quali parametri? si legge tanta di quella robaccia oggi, che perlomeno allora si rispettavano le regole. E comunque è uno spaccato della Londra di quei tempi, con i rituali pedofili e massoneggianti della nobiltà putrefacente. Io non lo sottovaluterei e mi verrebbe di associarlo alla faccenda di Yara Gambirasio
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